venerdì 26 ottobre 2018
Solo due terzi dei mezzi si strada ogni giorno per i guasti. L'11 novembre il referendum per scegliere se mandare a gara il comparto
Atac, debiti e vecchi bus la zavorra che fa collassare il servizio
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Ci si affretta a puntare il dito alla ricerca di colpe e responsabilità, quando (spesso) succede un incidente. Un bus Atac che prende fuoco – ne sono andati in fiamme 21 solo nei primi nove mesi del 2018 – una metro che si ferma per un calo di tensione come ieri mattina sulla 'Linea b' o, peggio, una scala mobile che cede all’improvviso diventando una tagliola per i passeggeri. Ansimante dopo oltre un ventennio di strada in salita e rimessa in carreggiata solo grazie a un concordato che scongiura il fallimento, la municipalizzata dei trasporti di Roma resta sempre uno dei grandi 'buchi neri' che ogni amministrazione capitolina si trova ad affrontare. E molto inciderà sul suo futuro – almeno dal punto di vista politico – il referendum consultivo che l’11 novembre porterà i romani a scegliere se mantenere l’affidamento del servizio del trasporto pubblico in house, come accade adesso nella Capitale, oppure chiedere al Campidoglio la messa a gara del servizio.

Un’iniziativa, per cui serve un quorum del 33%, promossa dai Radicali italiani che hanno raccolto 33mila firme per «mettere fine al rapporto malato tra Comune e Atac», dice il segretario del partito Riccardo Magi, oggi deputato di +Europa. «Liberalizzare – precisa – non vuol dire privatizzare, visto che l’idea è dividere la città in aree con gare diverse a cui possono partecipare sia soggetti privati che pubblici». Oggi Roma, secondo lui che guida il fronte del sì al referendum, «è ostaggio di un’azienda che non è più in grado di garantire un servizio» e l’amministrazione Raggi «si comporta come proprietario di una società ormai fallita». Anche se il primo semestre del 2018 si è chiuso con un’utile di 5,2 milioni, questi – continua Magi – «sono frutto del congelamento dei debiti e di una riduzione del servizio, con un calo drastico dei chilometri percorsi».

Sulla linea del no, oltre a M5s, Fratelli d’Italia, Lega e Leu (Fi non si è espressa e il Pd va verso la consultazione interna degli iscritti), anche Cgil, Cisl e Uil Lazio che hanno lanciato la campagna di comunicazione C’è chi dice no. Il ragionamento di partenza resta che «non sempre privato è sinonimo di efficienza ». Il segretario generale Fit Cisl Lazio, Marino Masucci, cita esperti che dimostrano come «aprire al mercato porterà ad un aumento delle tariffe, ad una qualità minore del servizio e condizioni peggiori per i lavoratori». A guadagnarci insomma sarebbero «i dirigenti aziendali, non i cittadini». Ciò che ser- ve ad Atac invece, continua, è una «gestione normale, con manager trasparenti e competenti, un piano industriale con obiettivi chiari e investimenti seri». Va perciò sfatato il mito – per Masucci – che «un’azienda pubblica non possa fare utili, coniugando efficienza e servizi di qualità».

Certo non si può negare che Atac da tempo sia arrivata al capolinea. Anzi proprio in deposito. Dove ogni giorno si fermano per guasti vari quasi 600 dei 2mila mezzi in forza all’azienda, riducendo la flotta ad appena 1300 autobus, per via di un’età media che supera i 13 anni. Così lo scorso anno sono scesi ulteriormente i km percorsi, da 149 milioni a 144 milioni. Per l’inizio del 2019 dovrebbero arrivare (ma il condizionale è d’obbligo) i primi nuovi mezzi della commessa da 227 bus acquistati attraverso la piattaforma Consip costati 76 milioni di euro, dopo una prima gara d’appalto per 320 pullman andata deserta. Ma non è solo una questione di mezzi, anche se gli investimenti in questo comparto si fermano a poco più di 16 milioni l’anno contro i 172 milioni dell’Atm, la municipalizzata dei trasporti milanesi (dati 2016 elaborati da Fit Cisl Lazio). La stessa sproporzione si ripropone sugli investimenti generali di Atac che nel 2017 sono stati 23,6 milioni contro i 140 investiti nello stesso esercizio in Atm.

Su Atac pesa in più una zavorra. Ovvero i 1,4 miliardi di debiti pregressi accumulati verso Comune, banche e fornitori (congelati solo per il concordato preventivo partito a luglio) e il lento recupero dell’evasione tariffaria: nel 2017 gli incassi da biglietti e abbonamenti si sono limitati a 264 milioni. E non aiuta molto neppure che il Campidoglio versi nelle casse dell’azienda – con un accordo prorogato fino al 2021 – 560 milioni di euro all’anno. Come pure incide un numero importante di dipendenti, l’anno scorso poco più di 11mila e 400 – comunque in continua diminuzione – di cui 9869 operativi (autisti, macchinisti e manutentori). Che, va detto, stanno facendo la propria parte per mandare avanti il servizio tra mille difficoltà. «I dipendenti sono passati da 37 a 39 ore settimanali – spiega il responsabile dipartimento per la mobilità Fit Cisl Lazio, Roberto Ricci – ma ci sono lavoratori in azienda costretti a farne persino 42 di ore». Ma a fronte di questo impegno, continua, «l’azienda sta rispettando a malapena gli accordi di servizio e questo sta creando non pochi attriti tra i lavoratori». Insomma, «Atac non sta seguendo il piano industriale sottoscritto». E questo rischia di diventare un boomerang.

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