mercoledì 15 aprile 2009
A Campotosto, 45 chilometri di tornanti sopra l’Aquila, manca ancora la corrente. Nella notte tra Pasqua e il Lunedì dell’Angelo è anche nevicato. Il sindaco di Arischia: «Tutti parlano di Onna e Paganica, ma anche il nostro centro storico è distrutto all'80 per cento».
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Lontani dagli occhi, lontani dal cuore? Ci sono tendopoli all’Aquila e frazio­ni terremotate che devono fronteg­giare la sovraesposizione mediatica, tra troupe televisive invadenti e cronisti a cac­cia di lacrime a tutti i costi. Ma c’è anche chi, lontano suo malgrado dalle luci della ribalta dell’informazione, rischia di esse­re dimenticato. Sono le tendopoli-cenerentola sparse nel parco nazionale del Gran Sasso. Come quella di Campotosto, dove a 1.400 metri d’altezza la notte si gela ma il campo è an­cora senza luce elettrica, né stufe. Come pure a Marana, che ieri sera aspet­tava con pazienza ammirevole i tecnici del genio militare per l’allaccio elettrico. O ad Arischia, dove la tendopoli è a posto, ma gente si sente abbandonata, perché tutti parlano di Onna, ma nessuno racconta di questo centro storico dove si è aperta una voragine grande quanto una macchi­na o della chiesa del ’300 che rischia di crollare. Per arrivare al lago di Campotosto dall’A­quila ci sono 45 chi­lometri di tornanti. Ci si mette quasi meno per arrivare nella Ca­pitale che è a 110 chi­lometri. Ma gli aqui­lani qui ci vengono volentieri: l’aria fina, il panorama delle montagne attorno, i prati dove pascolano cavalli, mucche e pe­core attirano turisti in cerca di un angolo di paradiso. Di solito già da Pasqua qui c’è il pienone. Quest’anno è diverso. La terra che trema ha cacciato via tutti. Le scosse più violente, però, qui non sono state quelle della notte di domenica 6. «Le case hanno cominciato a lesionarsi seriamente con le scosse di mercoledì e giovedì scorso – rac­conta l’assessore ai Lavori pubblici Anto­nio Di Carlantonio – quando l’epicentro dall’Aquila s’è spostato più a Nord. Mer­coledì l’epicentro è stato proprio qui e il si­sma ha raggiunto i 5,2 gradi Richter». La gente ha capito che non poteva più torna­re di giorno a casa dopo la nottata in mac­china. Don Juvens Velondranzana, il par­roco di origine malgascia, ha fatto la spo­la con Avezzano e l’Aquila portando le pri­me tende della Caritas. Qui c’era una gran­de tensostruttura che i paesani si sono montati da soli e che funge da mensa, sa­la comunitaria e magazzino. Poi sono ar­rivate cinque tende blu della Protezione civile e una decina bianche della Croce Rossa svizzera. Ora qui risiedono la gran parte dei 200 residenti di questo comune montano. Ma nella notte tra Pasqua e il lunedì del­l’Angelo il tempo è bruscamente cambia­to. «Una nottata tremenda – ricorda Fa­brizio Calandrella, piccolo imprenditore edile – perché c’è stata una vera bufera. Ac­qua, neve, il vento stava spicchettando le tende. E ha strappato le pareti al tendone mensa». La pioggia si è rifatta viva in que­sti giorni. Una donna cerca di asciugare il pavimento interno della sua tenda con u­no strato di cartoni. Tra l’umidità del lago e il gelo dai monti innevati, la notte qui è dura. E la mattina la brina imbianca tutto. Nel tendone-mensa ci sono le quattro stu­fe a fungo a gas che stavano in chiesa. Ma nelle tende solo le coperte. «Lunedì i mili­tari hanno fatto un sopralluogo – spiega l’assessore – e ci avevano detto che avreb­bero portato la corrente stasera (ieri per chi legge, ndr).Ma non s’è ancora visto nessuno». Marana di danni non ne ha subiti molti. Qui è la paura che impedisce alla gente di rientrare a casa la sera. «Anche quando la scossa mi sveglia in tenda mi prende un colpo – confessa Mimma Cavalli, consi­gliera comunale – ma qui non mi può ca­scare nulla in testa, sotto a un soffitto mo­rirei d’infarto mille volte». Così la gente di giorno si avventura in casa, magari cuci­na anche, la sera va nelle 25 tende blu mon­tate a fianco dello stradone che ospitano 150 tra famiglie e anziani. Don Rubens Da­rio Carmona Rodriguez, il parroco colom­biamo, alla poltrona della canonica prefe­risce il sedile della Fiat Uno parcheggiata in cortile. E indica la crepa che dal porta­le settecentesco della chiesa sale su e spac­ca in due l’architrave della finestra della facciata. Il Genio militare ha preparato gli allacci e i quadri, mancano le lampade dentro le tende e le stufe, che anche qui, a più di 800 metri di altitudine, fa­rebbero un gran co­modo. «Aspettiamo che vengano a mon­tarle da un momento all’altro – dice fidu­ciosa Mimma Cavalli – ma capiamo che ci sono altre preceden­ze. Non possiamo es­sere egoisti. A L’Aquila hanno per­so le case e i parenti. È gente segnata per tut­ta la vita. Non siamo stati dimenticati». A guardare i tigì e a sfogliare i giornali, in­vece, Marcello Masci il timore che Arischia sia stata dimenticata ce l’ha. Non dai soccorsi, che in questa fra­zione ha portato tende, corrente elettrica e ora anche le docce. Masci è il delegato del sindaco dell’Aquila per Arischia, come un presidente di municipio nelle grandi città. «Tutti parlano di Onna, di Paganica, del centro dell’Aquila. Ma anche il nostro nu­cleo storico è distrutto per l’80%. E la chie­sa di San Benedetto, gioiello romanico, è lesionata in modo gravissimo, ho paura che debbano abbatterla. E nessuno ne parla. Sabato ho convocato un’assemblea pubblica – dice Masci che nella vita è insegnante di lettere – per spin­gere i compaesani a parlare del futuro e non solo a piangere su questa tragedia. Questa era già un’area depressa economi­camente, il rischio è la fine di questa co­munità. Anche se il ministero non inten­desse riavviare l’anno scolastico, mi im­pegnerò personalmente per riavviare le le­zioni comunque. Il timore è che le perife­rie vengano abbandonate a se stesse se perdono l’attenzione dei media». Il timore più grande di Abramo Colageo, pensionato Telecom col pallino della sto­ria - su questo paese ha scritto cinque li­bri - è che il duomo benedettino di Ari­schia sia arrivato alla fine della sua vita mil­lenaria. Costruito nel X secolo, viene am­pliato nel 1370 dopo un violento terremo­to. Stesso copione nel 1520. Poi arriva il ca­taclisma del 1703, quando il 3 febbraio crolla sui fedeli riuniti per la Candelora: «Il vescovo Ludovico Antino scrive che la scossa durò un miserere», dice Colageo. Nel campanile una lapide dice «Riedifica­ta post terremotum Annus Domini 1715». La sua speranza è che tra qualche anno sullo stesso muro se ne possa apporre un’altra.
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