martedì 17 marzo 2009
I cocktail chimici di ultima generazione impongono interventi più efficaci e mirati per la lotta alla tossicodipendenza. Babolin (Cnca): diversificare i servizi. Don Rigoldi: la sfida è sempre educativa. Cipressi (Emilia Romagna): c’è l’esigenza di cambiare. Grosso (Gruppo Abele): la residenza forzata non è più accettata.
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Portare i servizi nella normalità e rivedere le comunità di accoglienza perché «sono state pensate per trattare gli eroinomani e, in minima parte, chi fa uso di cocaina. Non le nuove droghe chimiche». Queste, per Lucio Babolin, presidente del Coordinamento nazionale delle comunità d’accoglienza, le sfida che nei prossimi anni attendono le comunità di recupero. Lo schema classico su cui si basano le strutture di accoglienza residenziale infatti «va bene per certe tipologie di utenti, ma non per chi fa uso di queste nuove sostanze - aggiunge -. Occorre diversificare i servizi, renderli più snelli e flessibili». Una sfida che ha preso spunto dal dibattito nato a Trieste in occasione della quinta Conferenza nazionale sulle droghe, durante la quale Giovanni Serpelloni, capo dipartimento per le politiche antidroga presso la presidenza del Consiglio dei Ministri, ha lanciato l’allarme sulle cosiddette 'spice drug'. Droghe subdole, vendute sul web come incensi per profumare la casa o innocui prodotti alimentari (non sono tabellate e quindi, di fatto, legali), che però hanno effetti devastanti: può bastare una sola pastiglia per finire in pronto soccorso in preda ad attacchi di tachicardia, allucinazioni e perdita di contatto con la realtà. Un fenomeno nuovo e che, spesso, coglie impreparati anche i medici del pronto soccorso. Il vero problema però è dato dal fatto che chi usa queste sostanze non si considera tossicodipendente. L’immagine dell’eroinomane, emaciato, in perenne caccia di una dose, è lontana anni luce. «Si tratta di droghe prestazionali, da prendere nel fine settimana o la sera, per essere più tonici e star bene con gli altri», spiega Babolin. Chi le usa non ammetterà mai di avere un problema di dipendenza né, tanto meno, andrà a bussare alla porta di una comunità di recupero. «I ragazzi che incontro sono assolutamente normali e chiedono aiuto solo quando si sono inguaiati seriamente - aggiunge don Gino Rigoldi, presidente di Comunità nuova ­. Le comunità però sono consapevoli dei problemi di queste nuove droghe. Che poi tanto nuove non sono visto che le incontriamo già da 4-5 anni». La sfida, per don Gino, resta quella di sempre: «Da lontano non si educa nessuno. Servono regole e bisogna lavorare con i ragazzi e con le famiglie per costruire un progetto, dei modelli per il futuro». «Negli ultimi dieci anni le comunità hanno cercato di adattarsi all’evolversi del fenomeno del consumo degli stupefacenti ­spiega Mario Cipressi, presidente delle comunità dell’Emilia Romagna - . Ci sono diverse iniziative calibrate sulle esigenze di questi nuovi utenti: percorsi serali ambulatoriali oppure percorsi residenziali intensivi brevi, da uno a tre mesi». Cambia il profilo del consumatore e devono cambiare anche gli interventi: chi fa uso di queste nuove droghe (ma lo stesso discorso vale anche per la cocaina ndr) ha, all’apparenza, una vita normale: studia oppure lavora, ha amici, molte relazioni ed è ben integrato. «Da qui l’esigenza di cambiare il cliché sulle comunità - aggiunge Cipressi ­e puntare sul reinserimento attraverso percorsi integrati con la vita dei consumatori». Occorre un atteggiamento flessibile, sia nelle proposte che nei programmi, come ribadisce anche Leopoldo Grosso, vicepresidente del Gruppo Abele: «Una comunità tradizionale, con l’obbligo di residenza per 18-24 mesi non viene accettata. Perché si tratta di persone che non vogliono essere sradicate dalle loro abitudini quotidiane». Un buon esempio di intervento viene da alcune strutture del privato sociale che propongono agli utenti dei week end alternativi o delle serata in compagnia in cui si sperimentano modi diversi di stare in compagnia, per divertirsi senza bisogno dell’effetto di polverine o pasticche. «Sebbene le comunità, così come sono strutturate oggi, non siano pronte ad affrontare questi nuovi problemi, la consapevolezza di questa sfida ormai è affiorata. E molte strutture stanno elaborando nuovi interventi - aggiunge Grosso - . Devono avere un approccio attraente e serve una 'leggerezza' iniziale per convincere gli utenti a iniziare il percorso di disintossicazione». Per Lucio Babolin però la battaglia si gioca ancora prima delle comunità: «Sono i servizi di bassa soglia e le unità di strada che intercettano per prime i consumatori di queste nuove sostanze e che possono aiutarli», spiega. Occorre quindi riorganizzare non solo le comunità, ma il sistema dei servizi nel suo complesso. «Ma per farlo - conclude - occorrono risorse umane ed economiche che in questo momento non ci sono».
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