domenica 23 gennaio 2011
Nuove linee guida per aiuti più trasparenti, ma il nostro Paese resta agli ultimi posti nella classifica dei donatori. La conferma arriva dell’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo: nel 2009, solo lo 0,16% del Pil è andato agli aiuti internazionali, contro un obiettivo 2010 dello 0,5% e dello 0,7% entro il 2015.
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La presenza di molti attori nella cooperazione allo sviluppo rivolta all’Africa richiedono una sempre maggiore attenzione, coordinamento e rispetto di procedure trasparenti e condivise,  che sappiano rendere conto dei risultati ottenuti. Anche perché i fondi sono sempre meno. Nel 2009 l’Italia ha dedicato alla cooperazione  solo lo 0,16% del Pil, molto lontano dall’obiettivo dell’0,5% che avrebbe dobuto raggiungere lo scorso anno e dello 0,7% fissato per il 2015. Eppure l’impegno del nostro ministero degli Esteri e delle Organizzazioni non governative che sono impegnate nell’assistenza sanitaria in Africa non viene meno, avendo condiviso, tramite le Linee guida recentemente costruite, obiettivi e strategie che contribuiscano a rendere efficace un’azione di aiuto a 360 gradi. Questi temi sono stati al centro della giornata di studio svoltasi ad Aosta «Come cambia il modo di fare cooperazione sanitaria in Africa», promossa dall’Azienda Usl Valle d’Aosta e dalla «Fondazione Maria Bonino», che da oltre cinque anni è attiva per sostenere progetti di cooperazione sanitaria in Africa. Gli stessi progetti in cui la pediatra Maria Bonino credeva fortemente e in cui si impegnava personalmente mettendo a disposizione la sua competenza negli ospedali dei Paesi africani più poveri. Fino a quando nel 2005, mentre lavorava in Angola a un progetto del Cuamm-Medici con l’Africa, fu contagiata e morì nell’epidemia del virus di Marburg che causò centinaia di vittime nella regione angolana di Uige. Nel corso degli ultimi decenni l’esperienza ha portato a riflettere sulla cooperazione sanitaria in Africa. «Si può dire – spiega Marco Sarboraria (Medici senza frontiere) – che si passa da una medicina che risponde al sintomo, cioè al bisogno, a una più strutturata, che prevede l’invio di grosse forniture di materiali e di personale sanitario. Poi sui progetti si comincia a lavorare su larga scala, si ottengono dati, che una volta elaborati evidenziano quanto l’impegno sia stato efficace. Così il lavoro fornisce spunti per la ricerca e per fare ulteriori progetti che siano validi nel tempo, scientifici e adatti al contesto particolare in cui devono essere applicati». Questo processo di revisione critica dei progetti si è reso tanto più necessario in quanto è cresciuta la pluralità di soggetti che fanno cooperazione, ha spiegato Elisabetta Belloni, direttore generale della Cooperazione allo sviluppo presso il ministero degli Esteri: «Il ruolo di coordinamento, che non può che spettare allo Stato, ha puntato alla messa a sistema delle varie istanze attraverso la redazione di Linee guida: non dettate dall’alto, ma frutto del lavoro di diversi tavoli con gli attori più significativi delle politiche di cooperazione, dalle Ong alle università, dalle regioni alla società civile, fino a cercare di coinvolgere il mondo dell’imprenditoria. Non si può parlare di sanità se non si ha un approccio integrato allo sviluppo, se non si parla contemporaneamente di educazione, di alimentazione, di ambiente». «Una strategia basata solo sull’offerta di servizi sanitari è poco efficace» ha confermato Giorgio Tamburlini, dell’Osservatorio italiano sulla salute globale. Infatti nei Paesi in via di sviluppo che hanno ottenuto i maggiori progressi anche sanitari «i risultati più importanti sono stati ottenuti con politiche che hanno affrontato in primo luogo la povertà, e contemporaneamente le cause intermedie di esposizione e suscettibilità alle malattie (istruzione, lavoro, nutrizione, ambiente)». Una lezione che Cuamm-Medici con l’Africa ha appreso da tempo. «Ci vogliono una strategia e un approccio chiaro – spiega don Dante Carraro, direttore del Cuamm –. Ciò significa che non si possono affrontare le singole malattie (la malaria o l’infezione da Hiv) senza prendere in carico il sistema sanitario locale, aiutarlo a crescere nel suo insieme. Senza spezzettare gli interventi, perché c’è a cuore più l’interesse del donatore che il bisogno della comunità». Ma fondamentale resta il poter rendere conto di ciò che si è fatto: «C’è una crisi culturale in quest’ambito, prendono piede teorie secondo cui l’aiuto ai Paesi africani fa danno. Noi rispondiamo che se l’aiuto allo sviluppo è favorire la corruzione e la non trasparenza, siamo d’accordo. Ma se la cooperazione è capacità di dialogare con le autorità locali, di intervenire in maniera integrata e di dimostrare quel che si fa, cioè l’efficacia dell’aiuto, allora far cooperazione può davvero cambiare la situazione». Infine, sottolinea don Dante Carraro, «servono due elementi, che Maria Bonino aveva: la grande serietà umana e professionale, che porta ad avere strategia e obiettivi chiari. E dall’altra la tenacia e la fiducia, che si radicava per Maria in quel Dio che l’ha sempre sostenuta e che ti dà la forza di continuare, senza illusioni da una parte, e senza frustrazioni dall’altra, con il sano realismo dei cristiani».
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