venerdì 16 ottobre 2009
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Sono sorsi salati quelli che ingoiano i cittadini italiani, per i quali un bicchier d’acqua si è trasformato in un piccolo lusso quotidiano. Nell’ultimo anno, il costo dell’"oro blu" è aumentato in media del 5,4% rispetto al 2007; in otto anni, dal 2000 al 2008, l’aumento è stato del 47%, secondo recenti dati Istat. Coinvolti dal vertiginoso incremento 68 capoluoghi di provincia, con 15 città che vedono rincari a due cifre. La Toscana, con ben 7 tra le prime 10 metropoli più care, si conferma la regione con le tariffe più costose: 330 euro annui, con un incremento nel 2008 del 5,8% rispetto all’anno precedente. La mappa del salasso è stata tracciata dall’Osservatorio Prezzi e Tariffe di Cittadinanzattiva, che mette in evidenza come in 12 mesi una famiglia tipo di tre persone con un consumo annuo di 192 metri cubi d’acqua, sostiene in media una spesa di 253 euro per il servizio idrico integrato ad uso domestico (acquedotto, canone di fognatura, canone di depurazione, e quota fissa o ex nolo contatori), comprensiva di Iva al 10%. Bere costa anche in Emilia Romagna (304 euro annui per famiglia, +21,4% a Parma, +10% a Ravenna), passando per Marche (290 euro annui, +14,4%, ad Urbino e +11,5% ad Ancona), Basilicata (260 euro annui, +16,1% a Potenza e Matera), Veneto (220 euro, +16,3% a Padova e +12,3% a Verona). La Campania, dal canto suo ha visto un incremento del 34,3 e 31,9% per Salerno e Benevento. Marcate differenze, secondo quando rilevato da dossier, esistono anche all’interno di una stessa regione: in Sicilia, tra Agrigento (città più cara d’Italia con 445 euro) e Catania intercorre una differenza di 258 euro.. Tariffe "bollenti" che troppo spesso non vedono una contropartita in termini di investimenti per migliorìe al sistema idrico, per il quale si registra un tasso medio nazionale di dispersione pari al 34%. Acquedotti colabrodo, dunque, ma non solo. La qualità del servizio, insomma, resta carente e si continua a far pagare il canone di depurazione anche in assenza del servizio. Dall’ultimo Rapporto del Comitato di Vigilanza sull’Uso delle Risorse Idriche (luglio 2009), al 2008 risultavano infatti realizzati, secondo quanto sottolineato da Cittadinanzattiva, solo il 56% degli investimenti previsti, con differenze tra le regioni e all’interno delle stesse. A far da controcanto, in positivo, ci sono Veneto e Liguria, dove a fronte di investimenti alti, le tariffe risultano inferiori alla media nazionale e la dispersione idrica è bassa. «Alla luce di tutto – ha commentato Teresa Petrangolini, segretario generale di Cittadinanzattiva –, crediamo non più rinviabile allargare le competenze dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas anche al servizio idrico, rafforzandola con reali poteri d’intervento».Ma i dati non piacciono al direttore generale di Federutility, Adolfo Spaziani che sottolinea come non si possa parlare «di aumenti tariffari nell’acqua come se fosse un allarme contro la speculazione. In Italia sembra che nessuno si renda conto che per un euro e mezzo, in media, l’azienda preleva mille litri di acqua, li pulisce, li porta in casa alla giusta pressione, li raccoglie dopo che li abbiamo usati, li depura e li immette di nuovo nel ciclo della natura. Per un euro e mezzo!». E sul caro-tariffe aggiunge: «Possiamo anche decidere di abbassarle ulteriormente, perchè no? Basta rinunciare alla manutenzione degli acquedotti, agli impianti di depurazione e alle reti fognarie. Nessun problema. Certo, i nostri figli berranno acqua direttamente dai fiumi e dai laghi e torneremo a far circolare le fognature a cielo aperto...».E otto regioni sarebbero «fuorilegge»ma si beve ancora grazie alle derogheQualità dell’acqua e attenzione al consumatore. Due garanzie fantasma, per ciò che riguarda il servizio idrico destinato al consumo domestico in Italia. Ad impensierire Cittadinanzattiva, il grande ricorso alle deroghe in materia di potabilità da parte delle regioni e la loro trasparenza nell’informazione ai cittadini: 13 quelle che, negli ultimi 7 anni, ne hanno usufruito. Previste dal D.Lgs. 31/01 e concesse dal ministero del Lavoro. Consentono a Regioni e Province di derogare da 3 fino ad in massimo di 9 anni alle regole stabilite sui limiti tollerabili consentiti (con parametri fissati dall’Organizzazione mondiale della Sanità), per sostanze come cloriti, arsenico, fluoro, trialometani, salvo informare a riguardo, in modo adeguato e continuativo, tutta la popolazione interessata. «Se nel 2002 solo la Campania ne aveva fatto ricorso, accompagnata nel 2003 da altre 2 regioni, per complessivi 5 parametri "fuorilegge" (fluoro, cloruri, magnesio, sodio, solfati), attualmente – sottolinea il dossier –, sono 8 le regioni in deroga (Lazio, Lombardia, Piemonte, Trentino, Umbria, Toscana, Campania, Puglia), per un totale di 7 parametri: arsenico, boro, cloriti, fluoro, selenio, trialometani e vanadio».Regioni carenti nell’informazione ai cittadini e in alcuni casi, precisa Cittadinanzattiva, colpevoli di aver non specificano nemmeno i nomi dei singoli comuni coinvolti. Ad oggi, secondo i dati del dossier, è il Lazio la Regione con il maggior numero di amministrazioni comunali interessate da deroghe: 84 (a fronte della 37 del 2006) per 5 parametri. A seguire, la Toscana con 21 Comuni (che tuttavia nel 2008 ne registrava 69 e nel 2005 addirittura 92) e tre parametri. «Cosa succederà dal 2010 – si chiede l’associazione – quando la richiesta di ulteriori deroghe per gli stessi parametri oggi "fuorilegge" andrà indirizzata direttamente alla Commissione Europea?».
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