mercoledì 25 marzo 2009
 nella regione da cui proviene la maggior parte dei nomadi che arrivano a Milano, Roma e Napoli. Povertà, infrastrutture fatiscenti, rapporti difficili con la popolazione romena. Ma c’è chi prova a colmare lo svantaggio Gli adulti sono quasi tutti partiti per l’Italia. Dove molti trovano lavoro in nero o si arrangiano con il borseggio e mendicando per le strade
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E' un paese per vecchi e per bambini, Sàl­cuta, in Romania. Un villaggio di soli piccoli e anziani rom. Gli adulti, uomi­ni e donne, sono partiti per l’Italia. Sàlcuta, Bals, Tântâreni, Lipov: da qui arrivano (e pe­riodicamente qui fanno ritorno, più “pendo­lari” che “nomadi”) quasi tutti i rom di Mila­no. Quelli dei campi regolari e quelli dei cam­pi abusivi più volte sgomberati. Alcuni sono anche a Roma, Napoli, e perfino Barletta. I loro villaggi in Oltenia, la regione intorno a Craiova, sono isolati dalle cittadine vicine. Fisicamente, da chilometri di sterrato e fan­go. E socialmente: l’integrazione con la po­polazione romena qui è difficile come altro­ve, anche se all’anagrafe uf­ficiale non ci sono differen­ze etniche. A stento arriva la luce elet­trica, nei villaggi. Le fogna­ture e i condotti idrici si fer­mano alla soglia delle stra­de dei “mattonari”, dei “mu­sicisti”, dei “ramaioli”. Così vengono classificati dai ro­meni, secondo le principali attività dei gruppi. Attività fittizie perché non produco­no reddito. «Non vogliono lavorare, i rom». In romeno «rom» ha l’iniziale doppia, ha il suono di un motore in panne. Per arrivare a strada Petre Pandrea, un abi­tato rom nel distretto di Bals, bisogna attra­versare i binari della ferrovia. Capita di ri­metterci una gamba: una giovane donna, Jo­nica Liliana Constantin, da bambina è fini­ta contro il treno. Arriva zoppicando quan­do sente dell’arrivo degli italiani, quelli del­la Casa della Carità di Milano, che l’hanno aiutata quand’era in Italia. Ha vissuto a Co­logno Monzese e a Rho, in piccoli campi no­madi. Ha chiesto l’elemosina in piazza Duo­mo e alla stazione Cadorna. «Tornare a Mi­lano » è il pensiero fisso da quando è a Bals, col figlio di sei anni. Il piccolo va al vicino a­silo, ma dopo? Passano frotte di bambini ra­denti ai binari, i più grandicelli portano in spalla i più piccoli. Non vanno a scuola. «Ci chiamano zingari», sorride amara Joni­ca. «Tzigani». Ma qui non ci sono violini e larghe gonne a fiori. Ci sono catapecchie di legno in mezzo fango e cani randagi. Vecchi che vanno in paese a riempire le taniche d’acqua. Unico segno del progresso sono le antenne paraboliche, issate perfino sulle ba­racche. In tv c’è una telenovela che spopola tra i rom, perché ne è l’epopea romanzata, “Cuore zingaro”. «Sono rom io? Non lo so…». Jonica sa solo che vuole tornare a Milano, «pure a mendicare, anche se è brutto». Per­ché «qua… qua…», si guarda intorno e non trova parole per dire che lì non c’è nulla. Vor­rebbe mostrare la sua casa, offrire un po’ di caffè riscaldato sulla brace, ma non fa in tem­po. Arriva il sindaco di Bals. Protesta con gli italiani, il “primar”. Non vuole che si ripren­da o si fotografi strada Petre Pandrea. Segue una lunga mediazione in Comune. La delegazione della Casa della carità pro­pone, come ha fatto nella vicina Tântâreni, di aiutare piccole imprese disposte ad assu­mere i rom. Il sindaco Theodorescu tenten­na: «Qui non ci sono rom, ma cittadini ro­meni ». È un ritornello, questo, in Romania, dopo l’ingresso nell’Unione europea. Si u­sano espressioni come “rudai”, quelli che la­vorano la legna, o “mugurel”, artigiani, per in­dicare i rom che fanno i piccoli lavoretti se­n­È za tanto mercato. Ma poco dopo il sindaco aggiunge caustico che «quella gente la tro­verete lì anche fra vent’anni, anche se la Ro­mania è in trasformazione: perché è la loro mentalità vivere così». E ammette che ci so­no luoghi a sé, come strada Popa Sapca. «Stiamo usando i fondi europei. Stiamo fa­cendo per loro la strada e la fognatura» so­stiene il primar. «Loro» sono i rom. Strada Popa Sapca è una serpentina sterrata. Da qui arrivano molti rom di Triboniano, il campo più grande di Milano. Esmeralda, set­te anni e un sorriso vispo, racconta in perfet­to italiano di aver frequentato la scuola ele­mentare di via Console Marcello. Ricorda i no­mi dei compagni di classe. Spesso i bambini come lei non finiscono la scuola in Italia. I ge­nitori li riportano nei villaggi perché non rie­scono ad occuparsi di loro, li affidano ai nonni. E infatti an­che qui ci sono solo vecchi e bambini. A Sàlcuta, un pugno di ba­racche lontane 15 chilome­tri di sterrato dal primo cen­tro abitato, i bambini sono divenatati ragazzi pronti a partire, in autobus. O in au­to, guidando per ventitré o­re fino ai campi della perife­ria di Milano. Non li aspetta un lavoro. «Si guadagna in metropolitana», strizza l’oc­chio uno di loro ai “gagè” i­taliani, facendo il gesto del borseggio. Il lavoro in Italia se c’è, è spesso in nero, spie­gano i responsabili della Casa della carità, che tuttavia sono riusciti per alcuni a trova­re un impiego regolare. E perfino apparta­menti in affitto o comprati con il mutuo. Ma la strada verso l’integrazione è lunga e in sa­lita. Rimangono le sacche di emigrazione, specialmente a Nord, come in Transilvania e Moldavia, dove ci sono i villaggi più pove­ri. Lassù non ci sono le villette che stanno sorgendo perfino a Sàlcuta: case a più piani al posto delle vecchie baracche, costruite un pezzo alla volta a ogni rientro dall’Italia. Al­cune davanti hanno scalinate, giardini e macchine di grossa cilindrata. Stridono con la povertà delle altre. Con i bagni all’aperto e le bombole del gas portate a spalla, cam­minando per chilometri.
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