giovedì 27 luglio 2023
Trent'anni fa si raggiunse l’apice del terrorismo figlio della strategia di sangue dei “corleonesi” (ma non solo), finalizzata a costringere lo Stato a trattare con le cosche
I mezzi di soccorso in via Palestro, a Milano, il 27 luglio 1993

I mezzi di soccorso in via Palestro, a Milano, il 27 luglio 1993 - Fotogramma/Gussoni

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Ci sono date che restano scolpite nella memoria delle città come i nomi dei personaggi celebri posti sulle targhe agli angoli delle vie. Il 27 luglio 1993, per Milano è una di queste.

La strage di via Palestro, di cui oggi ricorrono i 30 anni, fu l’apice del terrorismo mafioso, il tentativo supremo (con le bombe anche contro le chiese di Roma) di costringere lo Stato a trattare. Era un martedì ed erano da poco passate le 23: nelle redazioni dei giornali il grosso dell’attività quotidiana era ormai passata. Anche se il periodo, la seconda estate di “Mani Pulite”, non concedeva mai troppa tranquillità.

Dal febbraio 1992 l’inchiesta dei magistrati della Procura milanese si era allargata a macchia d’olio e gli arresti eccellenti erano quotidiani. Pochi giorni prima, il 23, Raul Gardini, il “re” della chimica privata italiana, si era sparato nel suo palazzo in pieno centro poco prima di essere interrogato dal giudice Antonio Di Pietro. E il 20 luglio, un altro big manager, Gabriele Cagliari, ad di Eni, aveva concluso la sua esistenza infilando la testa in un sacchetto di plastica mentre era detenuto a San Vittore.

E poi c’era la mafia. Il 19 luglio si era celebrato il primo anniversario della strage in cui perse la vita Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta e i padrini (dopo l’arresto del boss Salvatore Riina il 15 gennaio di quell’anno) avevano lanciato un’offensiva per costringere lo Stato a trattare. Il 14 maggio, c’era stato l’attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro, a Roma, poi nella notte tra il 26 e il 27 maggio, un’autobomba distrusse la Torre dei Georgofili a Firenze e uccise 5 persone. Insomma, tempi cupi. Così quando il rimbombo dello scoppio attraversò mezza città, furono in pochi a domandarsi cosa stesse accadendo. Nessuna esplosione di caldaia, per intenderci, e scattò la corsa per arrivare sul posto.

In via Palestro la scena era terribile: il Padiglione d’arte contemporanea distrutto in parte, con le fiamme che ancora lo divoravano, automobili a pezzi, lampioni piegati. E, in mezzo, i corpi dilaniati di un vigile urbano e tre vigili del fuoco; poco distante quello di un immigrato marocchino. Era andata così: qualcuno passando aveva notato del fumo bianco che usciva da una Fiat Uno e aveva fermato una pattuglia di “ghisa” di passaggio.

I vigili avevano avvisato i pompieri che avevano mandato un’autopompa. Quando la squadra aveva aperto la vettura, aveva notato all’interno dell’auto un grosso involucro da cui usciva il fumo. Intuito che si trattava di un ordigno esplosivo, tutti cercarono di allontanarsi evitando che passanti ignari potessero essere coinvolti.

Ma non ci fu tempo. La miccia aveva finito la sua corsa e la deflagrazione colpì in pieno il vigile urbano Alessandro Ferrari e i pompieri Carlo La Catena, Stefano Picerno e Sergio Pasotto. Un pezzo di lamiera scagliato con violenza dall’onda d’urto, uccise Driss Moussafir che stava dormendo su una panchina poco lontano. L’attentato colpì una città già piegata e che si trovò in prima linea di una guerra che non si aspettava di dover combattere.

A questo sgomento diede voce il cardinale Carlo Maria Martini durante la celebrazione dei funerali il 30 luglio. Parlò di «infamia eterna» per gli assassini, responsabili di «gratuita crudeltà» e «follia omicida» e sottolineò come le vittime fossero da assimilare ai «servitori buoni» della parabola. Le indagini presero subito la pista mafiosa.

Le dichiarazioni dei pentiti, alcuni anni dopo, portarono a una lunga serie di ergastoli. Tra loro Gaspare Spatuzza che quando iniziò a collaborare, delineò sia la strategia (costringere lo Stato a scendere a patti) sia tutto il gruppo esecutivo. L’esplosivo venne fornito da un pescatore, anche lui all’ergastolo, che recuperava proiettili delle navi da guerra affondate. La base dove venne preparata l’autobomba fu individuata in un pollaio di Caronno Pertusella. Trent’anni dopo resta il ricordo di una città piegata ma che seppe ritrovare, insieme alle sue istituzioni, la strada per vincere la paura, resistere e ripartire.


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