La scuola a casa? Non solo per la famiglia nel bosco. Ed è una scelta legale
A preferire l'istruzione parentale è una minoranza (0,2%): devono sostenere esami ogni anno, ma alcuni scelgono "scuole amiche". E non vivono solo in campagna

La vicenda della famiglia che vive nel bosco in provincia di Chieti ha poco a che fare con l’home schooling, o istruzione parentale. I giudici del Tribunale per i minorenni dell’Aquila non hanno disposto l’allontanamento dei tre figli dai genitori Nathan Trevallion e Catherine Birmingham per il loro approccio educativo radicale, che rifiuta ogni tipo di programma formale, ma per il «pericolo di lesione del diritto alla vita di relazione». In altre parole, oltre alle condizioni sanitarie dell’abitazione nel bosco di Palmoli, a preoccupare i magistrati è l’isolamento sociale dei bambini. Semmai, perciò, il caso giudiziario ha puntato negli scorsi giorni un faro sull’esistenza di studenti al di fuori della scuola. Bambini e bambine che vengono educati in casa, dai 6 ai 16 anni (gli anni dell’obbligo), senza mai entrare in una classe o incontrare un docente. E che lo fanno senza violare la legge.
In realtà, si tratta di pochissimi studenti: secondo i dati forniti dal ministero dell’Istruzione e del Merito, nel 2023/24 erano 16.823 gli alunni che hanno fatto ricorso all’istruzione parentale, su un totale di oltre 7 milioni di scolari. Il dato, però, è sottostimato: dal computo sono esclusi gli studenti delle province autonome e tutti quelli che, per motivi di vario genere, non risultano iscritti all’anagrafe studentesca. È, in ogni caso, una minoranza che cresce quasi ogni anno: nel 2017-18, il primo anno in cui sono stati raccolti i dati, gli studenti formati al di fuori della scuola erano circa 5mila.
La loro formazione è del tutto regolare, perché la scuola in Italia non è obbligatoria. Lo è l’istruzione, come scritto nell’articolo 34 della Costituzione, che apre a forme di educazione alternative a quella svolta nelle aule. E una di queste è proprio l’educazione parentale, che è definita come l’attività di istruzione svolta «direttamente o privatamente» dai genitori. Ma per rispettare le leggi – quattro decreti legislativi hanno regolamentato l’istruzione parentale dal 1994 al 2021 – le famiglie devono presentare un’autocertificazione della propria capacità economica e tecnica al dirigente scolastico dell’istituto più vicino alla residenza. Lo stesso dove, ogni anno, i figli sono obbligati a sostenere l’esame di idoneità che certifica le loro conoscenze e abilità sulla base delle “Indicazioni nazionali”, il documento che definisce i programmi e gli obiettivi di apprendimento nella scuola tradizionale. «In molti casi, però, le famiglie non si rivolgono all’istituto più vicino, perché scelgono quelle che chiamano “scuole amiche”, dove sanno che troveranno accoglienza nei loro confronti». Lo spiega Anna Chinazzi, docente di Pedagogia all’Università di Milano-Bicocca, che dal 2019 al 2024 ha viaggiato in tutta Italia per fare ricerca sull’istruzione parentale, conoscendo centinaia di famiglie che rifiutano la scuola.
Si tratta di un mosaico di provenienze sociali, geografiche e politiche diverse. Ma le soluzioni di chi ricorre all’istruzione parentale sono prevalentemente tre: educazione privata in famiglia, ricorso a reti informali di genitori e iscrizione a “scuoline” non riconosciute. «È un mondo spaccato al suo interno – spiega Chinazzi –. Ho conosciuto famiglie che facevano scuola in casa, altre che si lasciavano guidare completamente dagli interessi dai bambini, genitori in rete che si aiutavano a vicenda e scuole parentali». La maggior parte delle esperienze di istruzione parentale si concentra al Nord – soprattutto in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna –, ma non tutti studiano nel bosco. Secondo la ricerca di Chinazzi, «la distribuzione tra ambienti urbani, semiurbani e rurali è abbastanza equa». Ovunque, però, a spingere le famiglie verso l’istruzione parentale «è la critica del sistema scuola».
I genitori meno radicali condividono gli obiettivi della formazione tradizionale, riconoscendo la validità delle Indicazioni nazionali, ma confessano di aver perso fiducia nell’istituzione e nei docenti. «Spesso criticano che ci sono troppi bambini in aula, che gli spazi sono inadeguati o che i figli trascorrono troppe ore seduti al banco», spiega Chinazzi. In altri casi, spesso all’interno di ambienti rurali, le famiglie contestano alla scuola di strappare gli studenti alla natura per inserirli in un contesto artificiale. «Il tema più ricorrente – continua la ricercatrice – è quello della standardizzazione della scuola, contro la personalizzazione che ritengono di poter garantire a casa».
Le motivazioni dei genitori, tutte diverse tra loro, portano a scelte didattiche di ogni tipo: «La maggior parte di loro non mette la didattica al primo posto – commenta Chinazzi –. Preferiscono concentrarsi sulla curiosità e sullo sviluppo emotivo». In molti casi, però, il percorso formativo di chi rinuncia alla scuola non si svolge all’interno di una comunità in grado di favorire la socializzazione: «Loro rispondono che anche la scuola non è spesso il contesto ideale di socializzazione – conclude la ricercatrice –. I loro obiettivi sono diversi e nella maggior parte dei casi non sono applicabili nelle nostre aule. Ma ci deve far riflettere il fatto che alcune loro perplessità siano le stesse che le famiglie sollevano a scuola da anni».
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