Cpr, Rems, istituti minorili: i “non luoghi” degli invisibili
di Diego Motta
Nel nostro Paese ci sono sigle sconosciute ai più, che rimandano a luoghi di dolore sociale nascosto. Chi è al potere tende a cancellare questi spazi e chi li abita: eppure le emergenze lì dentro sono in crescita

Le strutture si vedono benissimo, chi c’è dentro no. Benvenuti nei luoghi in cui i nuovi “invisibili” sono sottratti agli occhi dell’opinione pubblica: che si tratti di detenuti, di maggiore o minore età, di persone straniere in attesa di capire se potranno restare in Italia o meno, di vite nel limbo perché nessuno se ne fa carico, l’imperativo di chi gestisce l’ordine pubblico pare essere diventato negli ultimi anni quello semplicemente di nascondere. Oscurare per tranquillizzare, non mostrare per cancellare. L’elenco di queste zone “protette” è lungo e va dai Cpr e dai Cas, centri pensati per trattenere o rimpatriare migranti senza alcun progetto di integrazione, agli stessi istituti penali minorili, dove la popolazione carceraria è in aumento (e le tensioni con loro). Senza dimenticare le Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che hanno preso il posto degli Ospedali psichiatrici giudiziari.
Cattedrali che si trovano spesso e volentieri nel deserto della nostra coscienza civica e di cui pochi conoscono l’esistenza (e la funzione). L’elefante nel corridoio, ovviamente, resta il sistema nazionale delle carceri, il principale serbatoio del rancore sociale represso e dimenticato, tra numeri fuori controllo legati al sovraffollamento e all’emergenza suicidi che continua, così come le rivolte dietro le sbarre. Sono 68 le persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre dall’inizio dell’anno, in un contesto in cui la popolazione carceraria complessiva è ormai stabilmente sopra le 60mila unità, con tassi di saturazione delle prigioni che hanno raggiunto una media del 130-140%. È giusto che di questi “mondi”, per quanto marginali, non si sappia più nulla? Il rischio è che, di questo passo, si affermi la logica del “rinchiudere e buttare la chiave”.
Partiamo dai Centri di permanenza per il rimpatrio, i cosiddetti Cpr. I più famosi non si trovano in Italia: sono il centro di Gjader e l’hotspot della vicina Shengjin in Albania. Dovevano rappresentare l’inizio della fine dell’emergenza immigrazione, si sono trasformati in un imbarazzante manifesto dell’incertezza, legislativa e operativa, nella gestione dei flussi migratori. Perché hanno una capienza del tutto ingiustificata rispetto alle presenze attuali: si stima ci siano alcune decine di persone, ma nulla è ufficiale, mentre l’utilizzo atteso prevedeva arrivi di centinaia di profughi dal mare. Oltre al braccio di ferro con la magistratura sulla legittimità dell’iniziativa, preoccupa anche l’investimento fatto, che secondo il governo è di 130 milioni l’anno per 5 anni.
Se guardiamo all’Italia, è rimasto lettera morta anche l’annuncio di creare un Cpr per regione, mentre nessuno dà seguito alla campagna lanciata da diverse sigle della società civile, tra cui la Comunità di Sant’Egidio, il Naga, le Acli di Milano e il Cnca, che hanno lanciato l’allarme sulla situazione delle persone “parcheggiate” nei centri in attesa di rimpatrio. È una campagna che chiede di chiudere questi spazi, veri e propri “non luoghi”, evocando addirittura la mobilitazione che ci fu ai tempi della legge Basaglia. «Come negli anni Settanta si abbattevano i cancelli dei manicomi – hanno scritto le organizzazioni della società civile nel loro appello -, oggi dobbiamo guardare oltre le reti dei Cpr e vedere quello che ci viene impedito di vedere: persone, vite, sogni interrotti, la cui unica colpa è non avere un permesso di soggiorno. Da troppo tempo nel nostro Paese non avere documenti giustifica la privazione così crudele della libertà». Da Gradisca d’Isonzo a Ponte Galeria, nel frattempo, sono giunte segnalazioni di violenze ai danni dei reclusi, così come di trattamenti farmacologici al limite. Nulla però si conosce, formalmente. Per il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, «i Cpr funzionano e sono perfettamente compatibili con l'ordinamento nazionale ed europeo. Il trattenimento è una privazione della libertà personale che passa attraverso la convalida del giudice conforme a quelle che sono le previsioni della nostra Costituzione».
L’altra faccia nascosta del dolore sociale invisibile porta ai servizi territoriali per la salute mentale, sempre più carenti come dimostrano recenti fatti di cronaca, e agli istituti di pena minorili. Secondo le ultime rilevazioni diffuse dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia, in tutta Italia alla data del 30 settembre 2025 risultavano 16.534 minorenni o giovani adulti complessivamente in carico agli uffici territoriali. Rispetto all’inizio dell’anno si è verificato un incremento di 1.566 unità, corrispondente a un tasso del 10,5%. Per il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, «questi numeri crescenti rendono sempre più critica la gestione dell’intero sistema della giustizia minorile che è stato investito da una pressione senza precedenti dopo l’approvazione del cosiddetto “decreto Caivano” del settembre 2023».
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