Brunetta, l'aumento dello stipendio e poi lo stop: cos'è successo
La decisione del presidente del Cnel di applicare la sentenza della Consulta alzando il proprio compenso a 311mila euro provoca «l'irritazione» della premier. In serata arriva il dietrofront

Intuita la nascente bufera politica e mediatica, Giorgia Meloni si mette all’opposizione del Cnel e del presidente Renato Brunetta. Nel tardo pomeriggio di venerdì, ambienti di Palazzo Chigi fanno trapelare l’«irritazione» della premier per la notizia dell'aumento dello stipendio deciso dall’ex ministro della Funzione pubblica, ora presidente del Consiglio nazionale economia e lavoro, organismo costituzionale da decenni ormai al centro di progetti di abrogazione.
Una mossa preventiva con cui la premier si sfila dall’angolo in cui rischiava di restare, per via dei pesanti attacchi delle opposizioni e anche della Lega, un mix di bocciature politiche e battute ironiche. Si va da Conte e M5s che ricordano i costanti «no» del Cnel al salario minimo (Brunetta fu incaricato dal governo di elaborare una sorta di controproposta) a Renzi che punge direttamente la presidente del Consiglio: «Io il Cnel volevo abolirlo - dice l’ex premier -, Giorgia Meloni ci ha messo il pensionato d’oro Brunetta».
L’offensiva della premier sortisce effetto, perché in serata Brunetta innesta una fragorosa retromarcia: «Come presidente del Cnel - dice -, non voglio in alcun modo che dall'applicazione legittima di una giusta sentenza della Corte Costituzionale derivino strumentalizzazioni in grado di danneggiare la credibilità dell'istituzione che presiedo e, di riflesso, condizionare negativamente il dibattito politico e l'azione del Governo. Per queste ragioni provvederò a revocare con effetto immediato la decisione assunta in Ufficio di Presidenza, relativa al recepimento».
Di buon mattino, però, lo stesso Brunetta sembra intenzionato a difendere la scelta di rendere più succulenti gli stipendi nell’organismo che presiede. Prima che arrivasse la stroncatura di Meloni, l’ente guidato aveva scritto ai quotidiani una nota per far sapere di non aver «effettuato alcun "adeguamento"» dei compensi ma di essersi «limitato a dare doverosa applicazione alla sentenza della Corte Costituzionale numero 135 del 9 luglio 2025, che ha ripristinato a decorrere dall’1 agosto il tetto retributivo dei 311.658,53 euro». Un «adempimento applicativo», specificava il Cnel, «immediatamente esecutivo, posto in capo a tutti gli organi costituzionali (Presidenza della Repubblica, Parlamento, Governo e Corte Costituzionale) e di rilievo costituzionale (Corte dei Conti, Csm, Consiglio di Stato, Avvocatura dello Stato e Cnel) e le diverse Autorità». Insomma, secondo il Cnel non risponderebbe al vero «quanto riportato il 6 novembre dal quotidiano Il Domani allorché in relazione al Cnel si scrive “per i vertici 1,5 milioni in piu’’». Poche ore più tardi, complice Meloni, è arrivata l’autosmentita.
Difficile dire se il danno d’immagine possa essere recuperato. Anche perché a muovere l’offensiva non ci sono solo le forze di opposizione. La premier rischiava anche di subire su questo tema il “fuoco amico” della Lega, che con la deputata Tiziana Nisini aveva annunciato al presentazione di un’interrogazione parlamentare. «Gli aumenti in piena autonomia degli stipendi al Cnel, a partire dal presidente Renato Brunetta, sono da riconsiderare», dice Nisini. Il Carroccio inoltre presenterà «una norma in Finanziaria che vada nella direzione inversa». Probabilmente la Lega prenderà atto del passo indietro di Brunetta, ma il caso comunque renderà più acute le polemiche tra il partito di Salvini e Forza Italia.
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