domenica 8 aprile 2018
Al confine con l’Iran è boom di siriani e afghani. La rotta balcanica è stata chiusa dall’Europa solo sulla carta, mentre nascono nuovi percorsi per chi fugge dai conflitti mediorientali
Ammassati su pick up e auto, migliaia di migranti attraversano il deserto anatolico

Ammassati su pick up e auto, migliaia di migranti attraversano il deserto anatolico

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«Mamma, non ce la faccio più. Fammi morire». Fahima ha 45 anni. Aveva un marito e quattro figli. Scappavano dalla Siria senza speranza e dalla Turchia senza futuro. Il 29 marzo lo scafista turco, salpato in piena notte da Bodrum per sfuggire ai controlli sulla rotta verso le isole greche, temendo di essere stato intercettato ha spinto al massimo finendo per ribaltarsi. L’unica superstite è Fahima. Sperava di strappare all’abisso almeno quel figlio di 4 anni. L’unico rimasto aggrappato a lei. Ma il mare è stato più forte. La guerra siriana uccide anche lontano da casa. E adesso a preoccupare le autorità turche, temporaneamente sfamate dal nuovo assegno di tre miliardi staccato da Bruxelles che ha appaltato ad Ankara la gestione dei profughi, c’è anche un altro confine lontano.

L’unico, con quello bulgaro, dal quale non si ascoltano echi di guerra. Dall’Iran, infatti, stanno partendo carovane sempre più numerose di profughi afghani, stanchi di attendere un ritorno in patria al riparo dai talebani. Spinti da diciassette anni di inutile attesa, tentano anch’essi la rotta terrestre verso l’Europa. L’allarme è suonato di nuovo pochi giorni fa lungo l’autostrada che risale il deserto anatolico. Da un groviglio di lamiere bollenti hanno estratto 17 cadaveri e 36 feriti gravi. Erano tutti stipati in un minibus con 14 posti a sedere. Mentre ricomponevano i corpi, gli uomini della Jandarma turca sapevano che il minivan carico di profughi irregolari non era che uno dei molti sfuggiti alla porosa frontiera con l’Iran.

Gli autisti sfrecciano a tutto gas alternando i tratti autostradali a vie secondarie, secondo le indicazioni di una capillare rete di staffette che informa i contrabbandieri sui movimenti della polizia. Le autorità di Teheran confermano che sono oltre 3 milioni gli afghani tracimati in terra persiana dal 2001, quando gli Usa e i loro alleati scatenarono la ritorsione dopo gli attacchi alle Torri Gemelle. Rientrare nelle regioni afghane ancora sotto il tallone dei talebani è fuori discussione.

In tasca non hanno più un soldo e gli unici a fargli credito sono i trafficanti. L’ultima carta da giocare. In Turchia sin dalla guerra siriana è fiorita un’economia di guerra che mette allo stesso tavolo contrabbandieri e nuovi schiavisti. Chi non ha denaro per pagare il passeur si sdebiterà lavorando sotto un padrone turco che rifonderà il trafficante.

Ottenere dati ufficiali è impossibile, ma diverse fonti locali sostengono che meno dell’1% dei siriani fuggiti in Turchia ha presentato domanda di lavoro nonostante sulla carta esista una norma che ne favorisca l’integrazione occupazionale. Succede perché «da una parte viene richiesto ai profughi un lasso di tempo minimo di sei mesi – spiegano gli attivisti di Meltin Pot – dal momento in cui viene ottenuto il documento d’identità turco a quello in cui è possibile iniziare a lavorare».

E nessun capofamiglia può permettersi di restare con le mani in mano per sei mesi, tenuto conto che la vita nei campi profughi, specie d’inverno, è al limite dell’umano. «Dall’altra perché i datori di lavoro, su cui grava l’onere di presentare la domanda per il lavoratore siriano che intendono assumere non hanno con tutta evidenza alcun interesse nel farlo». Mettere sotto contratto un fuggiasco vuol dire pagargli, in linea con la legge, almeno i minimi salariali, oltre all’assicurazione e la previdenza sociale. Inoltre la manodopera straniera non può superare la quota del 10% del totale dei di- pendenti. Un limite valicabile solo dimostrando che nessun turco abbia risposto all’offerta di lavoro. I sistemi di controllo del lavoro illegale, specie nelle province lontane, sono pressoché inesistenti.

Perciò per 5 euro al giorno si possono arruolare orde di nuovi schiavi, per lavori che un turco non farebbe per meno del quadruplo. Nelle campagne, nell’edilizia, nei laboratori tessili che producono capi per mezza Europa, i migranti bisognosi sono benvenuti. Sette giorni su sette, dall’alba a sera. «Tre milioni di rifugiati stanno cercando di venire in Turchia. La maggior parte di loro sono afghani, provenienti dall’est dell’Iran» ha dichiarato un alto funzionario dell’amministrazione Erdogan, fresca di accordo trilaterale con Mosca e Teheran sulla Siria. Con toni calcolati, gli uomini del sultano precisano: «Non stiamo dicendo che il governo iraniano li stia aiutando a trasferirsi in Turchia, ma lo sta permettendo». Cnn Türk, recentemente passata di mano per finire nel paniere mediatico dichiaratamente filogovernativo, trasmette servizi sulle carovane che giungono nella provincia orientale di Erzurum.

Intere famiglie che a piedi hanno attraversato valichi innevati e deserti rocciosi per arrivare in Turchia. La reazione dei turchi sul posto ha però sorpreso chi non conosce la generosità di un popolo che all’occorrenza sa moltiplicare i posti a tavola. Latte per i bambini, pasti caldi per gli adulti, coperte, vestiti. Una gara di solidarietà che le autorità osservano con un misto di tolleranza e agitazione. L’importante è che se ne vadano in fretta. A fare gli schiavi o a tentare la sorte più a Nord. A due anni dall’accordo, stima l’Acnur, la Turchia ospita oltre 3,5 milioni di rifugiati siriani, più di ogni altro Paese al mondo.

Solo a Istanbul, ce ne sono ufficialmente 540mila. In realtà molti di più, considerato che le autorità hanno sospeso la registrazione dei profughi 'nuovi residenti', forse temendo le ripercussioni politiche di una concentrazione tale da mettere in crisi l’immagine del governo di Erdogan. In una metropoli da quasi 20 milioni di abitanti, la presenza dei siriani non passa più inosservata quando dapprima interi isolati e poi interi quartieri sono diventati delle 'Little Siria'. Negozi, caffè, bancarelle di cianfrusaglia recano cartelli in arabo tanto nelle aree storiche come Fatih, a ridosso delle moschee più visitate, quanto a Basaksehir o Esenyurt, le periferie dove la città va tracimando sulla costa europea che si getta nel Mar di Marmara. Le frontiere terrestri, dunque, tornano ad essere la maggiore fonte di preoccupazione per il governo del presidente Erdogan.

Gli incidenti si ripetono ma le notizie vengono filtrate per non suscitare allarme. Secondo funzionari del ministero dell’Interno di Ankara, quasi 7mila migranti privi di documenti sono stati fermati e arrestati nel solo mese di marzo, 600 solo negli ultimi due giorni. Tra gli stranieri irregolari detenuti nel 2017, la maggior parte proveniva dal Pakistan (circa 15.000) seguiti dagli afghani (circa 12.000). Un aumento del 60 per cento rispetto al 2016.

Nello stesso periodo, precisano però dalla polizia, sono stati catturati 100 presunti trafficanti di esseri umani. «Dopo il completamento delle procedure di espulsione per i migranti illegali nelle nostre province, i rimpatri – spiega una nota nell’Interno – accelereranno e continueranno ancora nei prossimi giorni». La maggior parte, in realtà, verrà riportata alla frontiera iraniana dove avevano già ottenuto lo status di profughi. Un ping pong tra le frontiere che sta risollevando le casse dei contrabbandieri.

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