sabato 8 settembre 2018
Accoglienza la sfida vinta dei corridoi umanitari: ci sono integrazione e futuro per i profughi accolti dalla Chiesa. Ecco come
(Foto di repertorio)

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Qualcuno commentando l’allontanamento volontario dei richiedenti asilo della nave Diciotti da Rocca di Papa ha parlato di un “fallimento” dell’accoglienza della Chiesa italiana. E ha ironizzato. Ma la realtà è un’altra, come raccontiamo in questa pagina e come abbiamo raccontato più volte sul nostro giornale. Le diocesi, le parrocchie, il mondo associativo e delle cooperative, non solo accoglie più di 26mila persone in Italia, ma mette in campo progetti vincenti di integrazione che coinvolgono concretamente le comunità locali. Sono gli oltre 1.600 siriani, somali e eritrei giunti grazie ai corridoi umanitari e ospitati in tutta l’Italia, dal Nord al Sud, in grandi città ma anche in piccolissimi paesi. Sono le altre migliaia di rifugiati che, grazie a forme di accoglienza diffusa, ricostruiscono nel nostro Paese una vita e un futuro. Non sono “affari”, ma braccia e cuori aperti. Sono scuola, formazione, lavoro. Ma anche sport, arte, feste. È partecipazione alla vita ecclesiale e a quella delle comunità. È vera integrazione. Adulti, minori e molto spesso intere famiglie. Così come sono adulti, ragazzi e intere famiglie italiane a seguire, accudire, accompagnare i fratelli rifugiati. Volontari e anche professionisti, perché nella buona accoglienza ci vogliono gli uni e gli altri. Di nuovo: non affari, ma corretta e efficiente gestione. Questo è quello che fa la Chiesa italiana, i suoi pastori e i fedeli. Lo fa da sempre, lo fa oggi, lo farà domani. Come lo ha fatto da sempre per gli ultimi, i fragili del nostro Paese. E spesso poi sono loro, i rifugiati accolti, che poi aiutano gli italiani. (A.M.M.)

Corridoi umanitari / 2 Lecco. Scuole, cure, dignità per una famiglia eritrea (di Paolo Lambruschi)

Yonas, eritreo, 17 anni, studia in continuazione informatica. Anche quando lo incontriamo nella parrocchia dei santi Giorgio e Nicola a Postiglione, in provincia di Salerno, stringe in mano un pacco di fogli pieni di calcoli matematici. È arrivato in Italia il 27 giugno grazie ai corridoi umanitari promossi dalla Cei. Con lui la mamma Tsige, 39 anni, e le sorelle Helen, Nardos e Hanna, di 20, 13 e 10 anni. Gli stringiamo la mano. Ci sorride e la prima cosa che dice, in perfetto italiano, è «spero che torni papà». Di lui, militare come tutti i maschi eritrei, non hanno notizie da 10 anni.
La famiglia è fuggita in Etiopia 17 anni fa dopo che il governo aveva fatto bruciare il gazebo dove vendevano limonate. La punizione perché il capofamiglia era tornato senza permesso per salutare i suoi cari. Cosa che poi si è ripetuta. Diciassette anni in un campo profughi, dove sono nati tre dei ragazzi. Poi l’occasione del corridoio umanitario. «Per dare un futuro migliore ai miei figli – dice la mamma –. Qui stiamo bene. Speriamo davvero che torni la pace nel nostro Paese – aggiunge commentando la recente pace firmata tra i governi eritreo e etiope –. Ma temiamo ancora ritorsioni». Attorno a loro si è mobilitata la parrocchia e il piccolo paese salernitano ai piedi dei monti Alburni, a partire dalla coppia di tutor, Sergio e Veronica Botte. Mentre mediatore culturale è Fithawi Ghide, 26 anni, anche lui eritreo, giunto il 27 febbraio con un precedente corridoio umanitario, laureato in fisica e anche lui con la passione per l’informatica.
In questo mese di settembre tre ragazzi inizieranno la scuola, mentre la più grande frequenterà un corso da estetista, e intanto frequentano l’oratorio.
La domenica tutta la famiglia, che è ortodossa, partecipa alla Messa parrocchiale. La mamma ha già iniziato un corso di italiano per poi trovare un lavoro grazie alla collaborazione della Cisl. «È l’intera comunità che li ha accolti – spiega don Martino De Pasquale, parroco e direttore della Caritas della diocesi di Teggiano-Policastro –. Fin dal primo giorno quando abbiamo fatto la presentazione pubblica». Vivono in una casa in affitto pagato dalla parrocchia. «Nessun problema coi vicini che anzi si preoccupano per il silenzio: "non li sentiamo"», dice ancora don Martino. Davvero una comunità accogliente.

Oltre ad ospitare la famiglia eritrea, la parrocchia attraverso la cooperativa "L’opera di un altro" gestisce da due anni il centro per minori non accompagnati "Gli amici dei giovani". Attualmente sono sei ragazzi tra i 15 e i 17 anni, ma nel tempo ne sono passati una ventina. Tutti vanno a scuola, medie e superiori, e partecipano a vari corsi che vedono nuovamente l’impegno della comunità, in particolare la cooperativa "Al tuo fianco" che si occupa anche dei corridoi umanitari, oltre che del "Banco alimentare" e del servizio di trasporto disabili. Tante le iniziative: un corso di panificazione e pizzeria tenuto da un pizzaiolo del paese volontario, uno di pirografia su legno e uno di disegno grazie a un pittore del paese. Un altro ancora di ceramica realizzato nell'ambito del progetto "Liberi di partire, liberi di restare" della Cei. Istruttore è una ceramista che ha studiato a Vietri e il ricavato della vendita dei bellissimi oggetti prodotti finanzia la mensa diocesana per poveri di Sapri: rifugiati che aiutano italiani.

Fra i ragazzi c’è Enock del Ghana, ha 17 anni ed è qui da quando ne aveva 15. Dopo la licenza media ora segue un corso di odontotecnico e cura l’orto assieme alla mamma di don Martino: si alza prestissimo per innaffiare, poi torna a riposare e poi va a scuola. I frutti dell’orto vengono consumati dagli stessi ragazzi, dagli anziani ospiti della casa di accoglienza sempre della parrocchia a fianco di quella per i minori, e venduti per finanziare le attività parrocchiali. Un altro bell’esempio di integrazione in questo piccolo paese dell’accoglienza. Eppure anche qui c’è chi ha provato a provocare. Il giorno dell’inaugurazione della casa per minori, il 27 giugno 2016, sono venuti alcuni esponenti di Forza nuova a contestare l’apertura e in particolare l’uso dei fondi dell’8xmille. Fondi che in questi anni hanno prodotti ricchi frutti.

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