Vita

Percorsi di fine vita / 2. Hospice: verso la fine, in buone mani

Paolo Viana, inviato a Chieri giovedì 13 aprile 2023

Un'infermiera sostiene una paziente all'hospice del Cottolengo

Tutto questo a cosa è servito? Domanda a bruciapelo, che partiva da un letto freddo e sudato. «Siamo troppo piccoli per saperlo» è stata la prima risposta che è venuta in mente a Luciana. Nessuna lacrima sulle guance lisce della figlia. Le lacrime erano finite da un pezzo. Mangiate dalle “mammellona-ture”: pezzi di pleura, di carne, tessuti impazziti. Cancro e sarcoma. Diagnosi e verdetto. A settant’anni cerchi di strappare qualche mese, e a venti reagisci come Anna. Ti fidanzi con chi ti accompagnerà fino in fondo, dormendoti vicino, su una brandina. E poi ti laurei, cucini per i tuoi amici, vai a ballare, cerchi un lavoro... Mentre affronti esami e interventi. Nel segreto della tua cameretta, leggi e rileggi il bugiardino del Pazopanib. Valuti, sognando e tremando, il suo effetto teratogeno su un possibile, desiderato feto. A vent’anni te ne freghi del male. Vuoi rubare la vita. Tutta. «La prima cosa che Anna mi disse uscendo dallo studio dell’oncologo fu “io non sono la mia malattia”...».

Terapie all'hospice del Cottolengo a Chieri - Foto Andrea Pellegrini - Ufficio Stampa Cottolengo

Luciana ci racconta la vita e la morte di sua figlia Anna davanti al letto dell’hospice di Chieri (inaugurato il 2 settembre 2022) in cui è spirata il 20 dicembre, a 29 anni. A pochi passi, in un’altra stanzetta, nel 1842 moriva Giuseppe Benedetto Cottolengo, il santo che credeva nei mezzi umani della Provvidenza. Carmine Arice, padre generale della famosissima Piccola Casa torinese, ha voluto questo ospedale degli ultimi giorni per «contrastare la cultura di morte imperante». Ma a vent’anni non si pensa a morire. Anna era bella e intelligente, lavorava come psicologa, calcava i palcoscenici come attrice comica. Sapeva far ridere gli altri col cancro in corpo. Perché il silenzio va riempito o lo riempiono i dubbi. A cosa sia servito vivere, lottare e morire non è una domanda solo sua. Se la pone anche Adele. Abita nella stanza accanto. «Se ho paura? Me ne sono fatta una ragione. Mi spiace per mio marito che non ha la mia fede, ma credere è questione di una maturazione spirituale che non è uguale in tutti». Ha 70 anni ed è devota di Maria Valtorta, «una mistica che parlava con il linguaggio dei nostri giorni». Scorriamo insieme la gallery del cellulare. Ci presenta una per una le sue piante. Nella casa di Pavarolo ha lasciato un autentico vivaio. Ci spiega come si fa una margotta. « Ricordatevi di me».

L'équipe sanitaria dell'hospice - Foto Andrea Pellegrini - Ufficio Stampa Cottolengo

Le storie degli ultimi giorni sono tutte uguali, se le osservi con gli occhi di chi le vive, e tutte diverse per chi resta. «Ci sono malattie che hanno una storia lunghissima, e altre brevissima. Il momento in cui il paziente viene “scaricato” è il più difficile. La modalità dell’annuncio – che non si può fare più nulla – è decisiva. In realtà c’è ancora moltissimo da fare...» racconta Ferdinando Garetto, palliativista di lungo corso. Ha aperto lui questa struttura, con il direttore sanitario Ida Grossi. La quale ci racconta che «c’è una grande sensibilità delle istituzioni per un fine vita dignitoso». L’Hospice Cottolengo profuma di nuovo: ventuno posti letto, ambienti accoglienti, cure di livello. Tutto convenzionato con il Ssn. La Regione Piemonte rimborsa 258 euro per giorno di degenza. «Io non posso che parlar bene della sanità pubblica – testimonia Luciana –, perché mia figlia è stata assistita egregiamente. Voleva vivere e, grazie alle cure, in nove anni ne ha vissuti ottanta». L’orazione funebre di questa dolce signora torinese è un trattato di pastorale sanitaria: «Mani amiche allontanano il dolore, leniscono lo strazio dell’addio. Ogni malato è il Cristo, il suo corpo un tempio...». Luciana insegnava in un liceo di Torino. Un ottimo rapporto con l’ex marito, che abita in Olanda ma è rimasto accanto alla figlia fino all’ultimo. Da quel giorno tremendo del 2013: « Anch’io ero una mamma che aspettava fino all’alba la figlia che andava a ballare, e quando Anna rientrava pensavo “ora siamo tutti in casa e il Male è fuori”. Invece il Male era dentro».

Una stanza dell'hospice - Foto Andrea Pellegrini - Ufficio Stampa Cottolengo

L’hospice è una struttura laica anche quando a gestirlo sono, come in questo caso, dei religiosi. Come dice Garetto, per accompagnare una persona alla morte con umanità si deve stabilire con il malato un rapporto spirituale e non necessariamente religioso. «Solo così riusciamo a sconfiggere il dolore delle cose importanti: chi e cosa lasci, i rimpianti e i rimorsi, la paura e la speranza». Sa bene che, fuori di qui, nessuno vuol sentir parlare di strazi e cateteri, occhi incavati che cercano un domani. «Dobbiamo riconciliarci con l’ineluttabile» commenta. La rivista scientifica Lancet ha creato una commissione per valutare cosa succede quando si muore. Ha stabilito che «nelle conversazioni e nella condivisione delle storie di tutti i giorni, la morte, il morire e il dolore dovrebbero diventate comuni». Adesso Luciana conosce la risposta. «Avere Anna è servito a portare il suo amore nel mondo – ci dice – e la mia fortuna è stata poterla accompagnare alla fine. Ho scoperto come è importante la morte. Avevo sempre pensato che fosse un orrore. Invece, non sai dove vai ma è importante come ci vai». non sai dove vai ma è importante come ci vai» Sopra, una operatrice dell’hospice con una paziente A sinistra, il personale sanitario Foto Andrea Pellegrini Uff.Stampa Cottolengo