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REPORTAGE DALL'ASIA. Mindanao, dove la violenza non piega la fede

da Zamboanga Stefano Vecchia venerdì 25 dicembre 2009
Molti i giovani, intere famiglie e non mancano i bambini. Non una sedia lasciata libera nel grande spazio della chiesa dedicata alla Trasfigurazione affacciata sul mare di Zamboanga. Sono le 4.30 del mattino, e la tradizionale Misa de Gallo sottolinea ogni giorno, in un clima festoso, la Novena di Natale. Certo, ci vuole ben altro anche solo per immaginare una soluzione alle difficoltà della tormentata isola di Mindanao, estesa un terzo dell’Italia e abitata da 22 milioni di individui, un concentrato dei problemi e delle aspettative sempre deluse dell’arcipelago filippino sullo sfondo dell’islam e del tribalismo che qui hanno le loro roccheforti. «Si vive in clima di guerra con le case piene di armi – testimonia padre Nevio Viganò, missionario originario di Lissone, parroco della Trasfigurazione –. La situazione è sempre al limite, pronta a esplodere». «Certamente da parte dei cristiani, qui a Zamboanga, c’è paura, tanta incertezza. Le tensioni riaccendono gli stereotipi ma pochi – dice padre Sebastiano D’Ambra, missionario siciliano da molti anni impegnato nel dialogo inter-religioso a Mindanao – si pongono realmente in dialogo per comprendere le radici dei problemi e affrontarli nell’ottica della giustizia, del benessere e della democrazia... Noi pastori e missionari non possiamo fermare questi pensieri, possiamo però agire per tentare di cambiare le cose». Comunque sia, in attesa di una soluzione – per tanti non certo inerte e sovente mettendo in gioco la propria vita –, nell’estremo meridione filippino nemmeno la violenza più cieca ferma la vitalità prorompente della popolazione; niente – e certo ancor meno nel periodo natalizio infarcito di tensione e paura di questo Anno del Signore 2009 – riesce a piegare la fede, insieme necessaria e spontanea dei cattolici.Lontana dalla solare e cosmopolita Zamboanga, la più centrale Cotabato rappresenta il cuore antico di Mindanao, quello tribale e islamico aperto alla cristianità solo nel XIX secolo, sommerso dall’ondata migratoria sponsorizzata dal governo centrale nell’ultimo cinquantennio. Qui, tra acqua dal cielo che cade su acquitrini e fiumi in vista del mare, montagne ricoperte da foreste custodi dei miti tribali, cicatrici della deforestazione e dell’attività mineraria, Mindanao rivela il suo volto ancestrale. Cotabato e le province limitrofe, che anche il mondo ha imparato a conoscere attraverso il massacro operato lo scorso 23 novembre dal clan Ampatuan sui rivali Magundadatu, sono allagate e piove sul duro lavoro, sulla povertà diffusa, sulle tensioni come sulle speranze. La piccola chiesa della quasi-parrocchia di San Vincenzo Ferrer emerge dal fango in una stagione che dovrebbe essere asciutta ma in realtà prolunga l’odissea di molte migliaia di Misa de Gallo e qualche banco di cibo natalizio, soprattutto, ancora una volta, lo spettacolo di una fede che rompe anch’essa gli argini, si riversa all’esterno e dilaga nell’oscurità.Mentre cittadini di religione diversa vivono abitualmente da buoni vicini, l’intera municipalità di quasi 300mila abitanti, in maggioranza musulmana, è off limits per gli stranieri, consentita con qualche precauzione al clero locale. Solo la protezione di vetri oscurati e spostamenti rapidi, ma tanta disponibilità a parlare, a raccontare consentono di gettare uno sguardo sulla sua realtà. La città e le province limitrofe di Maguindanao, Sultan Kudarat e North Cotabato sono terra dei clan, musulmani per incidente della storia ma ancora oggi dominatori indiscussi sulle risorse e sulla popolazione. Manila è troppo lontana, 700 chilometri più a Nord, troppo debole e anche troppo opportunamente distratta per smantellarne un sistema di potere che alla fine torna comodo in ogni elezione. Garantire ai clan il predominio significa assicurasi la vittoria in Parlamento o alla presidenza. «Non a caso quasi tutti i tentativi di accordo sono falliti o quelli in corso restano senza finanziamenti e interlocutori, alla fine svuotati di senso», dice monsignor Orlando Quevedo, arcivescovo di questa diocesi di 100mila cristiani colpita al cuore, lo scorso luglio, da un attentato dinamitardo che ha fatto 5 morti e decine di feriti di fronte alla cattedrale. «Comunque sia – conferma l’arcivescovo - il nostro proposito come diocesi è di ricominciare dalla venuta di Nostro Signore. Un’occasione mai come quest’anno attesa da tutti – cristiani e musulmani – non solo come gioia o rinnovamento, ma anzitutto come pausa salutare dal dolore e dalla tensione». Per il futuro, occorre credere nell’augurio espresso dai vescovi di Mindanao di un «Natale che illumini i cuori». Lo scetticismo necessario davanti al caos di Mindanao, tristezza e sconcerto lasciano ancora una volta spazio alla speranza quando, al posto di blocco vicino all’aeroporto, la faccia dura di un graduato che imbraccia un M16 si apre in un sorriso: «Merry Christmas, sir», Buon Natale...