Franco Nones: «Così ho cambiato la storia dello sci di fondo»
L’incontro con il mito dello sci che alle Olimpiadi di Grenoble 1968 fu il primo italiano medaglia d’oro nel fondo

Per arrivare da Franco Nones, la più umana delle leggende del circo bianco, dobbiamo lasciarci alle spalle tutte le città del Nord costeggiate dall’A22. Poi si sale su per la montagna, salutando meleti dolcissimi, mucche felici al pascolo e alberi colorati a festa dal foliage autunnale. È già un’altra Italia, pensiamo tirando un respiro d’aria purissima. Siamo quasi a mille metri d’altitudine, quando si gira per una discesa stretta, come quei binari solcati dagli sci sulle piste, appena qui arriverà la neve fresca. «Che una volta era tanta e l’inverno a Castello di Fiemme iniziava il giorno dei Santi», attacca Nones. La prima casa del borgo è la sua, quella del genius loci di ieri, di oggi e anche dei prossimi Giochi Invernali di Milano Cortina 2026, che qui in Trentino Alto Adige assegneranno 33 medaglie. A Predazzo, dove il giovane Franco faceva la guardia di finanza fino al ritiro dall’agonismo, si terranno le gare di salto in combinata («hanno costruito i nuovi trampolini da 80 e 120 metri»). Ma è a Lago di Tesero il suo “tempio”: qui è tutto pronto per le 10-15-30-50 km di sci di fondo. Nell’attesa, facciamo uno di quei rari incontri che potrebbero cambiare il corso di ogni viandante di città. Quello con Il primo oro, titolo della toccante biografia (Valentina Trentini Editore) che Nones ha scritto con il “Cristo pensante delle Dolomiti”, Pino Dellasega. Ma Nones è molto di più che la prima storica medaglia azzurra nella 30 km dello sci di fondo alle Olimpiadi invernali di Grenoble 1968. E quella, fu la cronaca di una “rivoluzione annunciata”. Il bracconiere di storie di montagna Rolly Marchi da Lavis, dati cause e pretesto aveva profetizzato già un futuro epico. Dopo il successo ottenuto nel gennaio 1965 in Svezia, a Älvdalen nella sfida a coppie contro l’idolo di casa Assar Rönnlund, scrisse: «Il giovane montanaro della Val di Fiemme darà all’Italia la prima medaglia olimpica del fondo. Scommettiamo?». Gli svedesi, per sdrammatizzare quella batosta casalinga pubblicarono una vignetta satirica che ritraeva il piccolo moro italiano («ai loro occhi ero un siciliano con la cesta di limoni») che si lascia alle spalle il lungagnone scandinavo che lo insegue con la lingua di fuori. Lo storico quotidiano di Stoccolma "Dagens Nyheter" tre anni dopo nell’edizione dell’8 ottobre 1968 celebrava l’oro di Grenoble con una foto di Nones e un titolo a caratteri cubitali “Bella Bella”. «È l’unica parola d’italiano che conosceva Gjermund Eggen, grande atleta norvegese, lui fu il primo a congratularsi per la mia vittoria ottenuta contro due fuoriclasse: il suo connazionale Martinsen, che è morto proprio l’altro ieri, e il quasi invincibile finlandese Mantyranta». Con il trionfo di Grenoble, Nones era entrato per sempre nell’olimpo degli immortali e in quelli che Cesare Fiumi ha definito uno di quei «solstizi agonistici che mutano il clima di uno sport, la sua geografia, i suoi confini naturali». Per raccontarci tutto nel dettaglio, l’eterno ragazzo dei Giochi del ’68 dall’alto dei suoi 85 anni e non sentirli, volto ed eleganza nel divulgare che rimanda a Piero Angela, e un peso forma invidiabile («avrò un mezzo chilo in più rispetto a Grenoble») ci aspetta nel suo rifugio, la casa di famiglia un piano sopra al negozio di articoli sportivi, Nones Sport.
All’ingresso la memoria si inchina dinanzi ai cimeli del piccolo museo personale, a cominciare dagli sci, di legno, e le scarpette leggere di Grenoble ‘68. «Tutto materiale finlandese della Karhu, che poi ho cominciato a commercializzare in esclusiva per l’Italia. Prima della mia vittoria, di sci di fondo da noi se ne vendevano 500 paia a stagione, poi negli anni ’80 il mercato è schizzato a 60mila-70 mila. Rifornivo 800 negozi, da Bolzano fino a Nicolosi, alle pendici dell’Etna. Ora siamo tornati indietro, quello degli sci di fondo è una nicchia da 7mila paia». Orizzonti lontani da quelle vette del secolo scorso, costellate di medaglie, coppe, ritagli di giornali, foto con la meglio gioventù del fondo italiano e internazionale, e le pettorine delle tre Olimpiadi invernali a cui ha preso parte. «Questa è la “17” di Innsbruck 1964, la mia prima Olimpiade. Ecco la “26” di Grenoble ‘68 e la “67” di Sapporo 1972 con cui ho chiuso i Giochi». Appena sotto c’è la foto con re Gustavo di Svezia, al quale quando è stato chiesto chi fossero i suoi tre miti sportivi di sempre rispose: «Ingemar Stenmark per lo sci alpino, Bjorn Borg per il tennis e un italiano, Franco Nones, per lo sci di fondo». Storia di un’amicizia con sua Maestà, nata con una colazione a Grenoble assieme all’allenatore degli azzurri, lo svedese Bengt Herman Nilsson, dopo quella conferenza stampa improvvisata che ritrae Nones sorridente in uno scatto in bianco e nero. Nella parete accanto a quel poster della gioia a cinque cerchi colpisce la stretta di mano, in due fermi immagini differenti con il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro. «Grande uomo Moro, un martire della politica. Purtroppo non l’ho conosciuto bene, mentre ero amico di Flaminio Piccoli, grazie al suo intervento diplomatico dalla Svezia sbloccarono i documenti di mia moglie Inger giusto in tempo per sposarci». Dalla cucina con un vassoio di dolcetti svedesi esce discreta Inger, la donna della sua vita e madre dei loro 4 figli, con cui il 25 ottobre di 55 anni fa Nones salì all’altare. «Ci ha sposati padre Eusebio Jori, il cappellano della Finanza. Con la Inger siamo stati “discepoli” della Comunità dei figli di Dio di don Divo Barsotti di cui fa padre il nostro caro padre Serafino Tognetti». Dio, famiglia e sport, i tre punti cardinali della sua parabola esistenziale. «Per mio padre prima veniva la Messa alla domenica e si arrabbiava quando dopo una settimana passata a lavorare alla segheria mi inventavo corridore in bicicletta. Gareggiavo per il Csi di Castello di Fiemme e 16 anni ho battuto ciclisti come Dancelli che poi vinse la Milano-Sanremo del 1970 e ho corso alla pari con Motta e Zandegù. Ma ero nato sulla neve e il mio destino era lo sci di fondo... C’ho messo l’anima nello sport, che non era quello di oggi pieno di campioni che davanti alla passione mettono prima gli sponsor e una squadra di “scienziati” che li segue ovunque vanno. Io avevo solo gli sci e la voglia di spingere e anche da solo non ho mai smesso di allenarmi. Dopo il fondo ho continuato con la marcia e ancora oggi mi faccio i miei 4-5 km di passeggiata, a passo svelto». Non fermarsi mai, è la lezione esistenziale che gli ha lasciato in eredità il suo “fratello delle nevi”, Marcello De Dorigo «Marcello è stato uno sciatore di fondo fortissimo: tra il 1960 e il ’64 aveva vinto tre titoli italiani individuali e altrettanti in staffetta, poi ci fu il dramma. Mentre come ogni anno con la Nazionale eravamo in ritiro in Svezia, a Valadalen, De Dorigo uscì per allenarsi e calato il buio venne dato per disperso. Con un lappone che gli aveva indicato la pista da seguire cominciammo a cercarlo dappertutto, ma niente. Poi seguendo un binario fuori pista alla fine per miracolo lo trovammo. Erano passate 24 ore, ma lui nella notte con -23 gradi ci raccontò che aveva continuato a sciare, poi si era tolto le scarpe per massaggiarsi i piedi congelati che erano diventati insensibili. Ma non smise di camminare, fino allo sfinimento e così facendo era riuscito a non morire assiderato. All’ospedale di Östersund i medici per evitare conseguenze peggiori gli amputarono sei dita. La sua carriera sportiva finì lì. Marcello è morto lo scorso anno», dice commuovendosi Nones che considera quell’addio precoce alle gare di De Dorigo come una sconfitta personale. Ma la sconfitta più grande rimane quella della perdita della figlia Caterina. «Aveva 25 anni la nostra “Cate”, se ne è andata per una malattia rara nel 2004», racconta a bassa voce mamma Inger davanti alla tomba della figlia che riposa nel piccolo cimitero accanto alla chiesa di San Giorgio. Qui ogni domenica canta nel coro durante la Messa delle 9 a cui il suo Franco non manca mai, e l’ascolta con gli occhi chiusi. «Quella notte in ospedale a Trento prima di salutarci per l’ultima volta Caterina mi chiese: “Papà, ma tu mi vuoi bene?” Di notte spesso mi sveglio, mi metto ad ascoltare Radio Maria e poi prima di riprendere sonno rispondo a Caterina: certo, papà ti vuole sempre bene».
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