Africa, quei ragazzi prigionieri di un pallone

Due libri, il noir di Bellinazzo e la storia vera del talento libico Faraj, uniti dal sogno tradito dal calcio
November 1, 2025
Africa, quei ragazzi prigionieri di un pallone
In piedi con la maglia del Barcellona, Seydou Sarr, aspirante calciatore senegalese e protagonista del film "Io capitano" di Matteo Garrone
L’eldorado del calcio europeo è il grande miraggio di ogni giovane che nasce ed osserva questo fastoso luccichio dorato al di là del Mediterraneo, dall’Africa. L’ultimo di questi grandi sognatori, ce lo ha fatto conoscere Matteo Garrone: Seydou Sarr, protagonista del suo film capolavoro Io capitano. Seydou aspirante calciatore, è uno dei milioni di ragazzi africani tarantolati da quello che Gianni Brera chiamava “Eupalla”, la divinità della sfera di cuoio. E quella febbre a 90’, che ha come effetto collaterale la smania di fuggire dal proprio paese e lasciarsi tutto alle spalle - guerre, fame, frustrazione per l’impossibilità di realizzare il sogno di diventare un calciatore professionista - ha colpito anche Jay-Jay, piccolo grande eroe esemplare del romanzo di Marco Bellinazzo, La colpa è di chi muore (Fandango, pagine 418, euro 19,00). «Il mio nome è Jay-Jay. Come Augustine Okocha, il campione delle Super Aquile», dice con orgoglio il ragazzo nigeriano presentandosi a Dante Millesi, il giornalista che indaga su un cadavere che è direttamente collegato a tre giovani calciatori africani a caccia di fortuna. Tre talenti adescati con la promessa di poter entrare in quei gironi paradisiaci del calcio che conta. Incoscienti quanto ingenui giovani del Continente Nero, che il più delle volte vengono usati e poi gettati via. È la tratta degli “schiavi del pallone”, un business, cupo ed atroce ancor prima del suo noir, che Bellinazzo conosce a fondo, anche nella portata economica, da giornalista di lungo corso al “Sole 24 Ore” cura una pagina settimanale di sport e finanza.
Qualche tempo fa gli inquirenti toscani e veneti si erano concentrati su alcuni casi di flussi clandestini di calciatori minori africani. In un report di cui è a conoscenza anche l’Onu del calcio mondiale, la Fifa, si calcola che ogni anno dall’Africa attirati dalle sirene del football si muovono verso l’Europa, con qualsiasi mezzo a disposizione, circa 15mila ragazzi. Ghana, Nigeria, Senegal, Camerun, Costa d’Avorio e Gambia, si contendono la Coppa d’Africa dei “migranti del pallone”, i quali spesso si ritrovano, in un amen, dal possibile ingresso nel serbatoio del miglior calcio giovanile internazionale a quello del canale senza via d’uscita della “tratta umana”. Plagiati e traditi, con il placet dei propri genitori, da fantomatici procuratori che in realtà sono dei mediatori senza scrupoli che operano per conto degli schiavisti, a loro volta al servizio delle società, alias fondi di investimento che scambiano la vita umana come fosse carne da macello. Al mercato del “bestiame calcistico”, anche il Millesi di La colpa è di chi muore realizza che i Jay-Jay sono dei potenziali cavalli di razza, ma che se non si piazzano subito poi spariscono nel nulla. Alle nostre latitudini, uno su ogni 2.358 aspiranti calciatori ce la fa ad arrivare al professionismo, mentre sul versante africano quella soglia d’accesso si innalza fino a ben oltre 1 su 15mila. E anche quando il ragazzo che è scampato al deserto della morte, la traversata del Sahara, o alle tempeste mediterranee da naufraghi sui barconi della speranza che sbarcano incessantemente sulle nostre coste, riesce a calcare un campo di calcio di primo piano, non è detto che quello sia l’inizio di una favola a lieto fine. Basti per tutte, la tragica fine di Joseph Bouasse Perfection, stellina camerunense, scappato dalla sua terra a 14 anni per inseguire la chimera della nostra Serie A. Sedotto e poi subito abbandonato da quegli squali per procura di cui si diceva sopra. La Liberi Nantes, associazione romana che attraverso il calcio accoglie e crea inclusione, aveva adottato Bouasse Perfection dopo averlo strappato a un quotidiano infernale da clochard: dormiva alla Stazione Termini. Gli osservatori della Roma lo vedono giocare con i ragazzi della Liberi Nantes e lo portano di corsa a Trigoria: 10 partite nella Primavera giallorossa e nel 2016 lo spediscono in prestito al Vicenza. Nel febbraio 2017 debutta in Serie B, contro l'Avellino. Appena un quarto d’ora di celebrità, poi via dall’Italia e una parentesi di un paio di stagioni al Cluj, serie A romena. Joseph muore d’infarto a 22 anni.
Di lui restano solo frammenti di gloria. Quella stessa gloria fugace che la grande promessa del calcio libico, Alaa Faraj, aveva sfiorato fin dai suoi esordi nella sua città, Bengasi, dove è nato nel 1995. Ora la sua storia è diventata una autobiografia-testimonianza straordinaria quanto inquietante. In Perché ero ragazzo (Sellerio, pagine 334, euro 17,00) Alaa racconta in un italiano grammaticalmente claudicante appreso dietro le sbarre, la sua vicenda che da sportiva è diventata drammaticamente carceraria. Dieci anni fa, come nel romanzo di Bellinazzo, Faraj fugge con altri tre amici calciatori, Abied e Tarek, per raggiungere l’Italia. Scappano dalla guerra civile in corso in Libia con la speranza concreta di trovare un ingaggio nei nostri campionati. Ma nel barchino, più che il barcone su cui viaggiano, per la grande calca nella stiva troveranno la morte, per asfissia, 49 persone. I media la chiameranno “la strage di Ferragosto”, quella che al regista Gianfranco Rosi ispirerà il docufilm Fuocoammare (Orso d’oro al Festival di Berlino 2016 e candidato agli Oscar nel 2017). Faraj una volta sbarcato miracolosamente a Lampedusa dovrebbe essere salvo e invece per lui è solo l’inizio di un’odissea giudiziaria. Uno degli scafisti lo accusa di essere complice e il fatto che sia libico, quindi un trafficante di migranti, gioca maledettamente a suo sfavore e viene condannato a 30 anni di reclusione: fine pena 2045. Alaa si dichiara «innocente» e due testimoni lo avevano anche scagionato dall’accusa di essere uno della banda degli scafisti, ma per la giustizia italiana è ancora uno dei colpevoli della “strage”. La sua unica difesa è la scrittura. Le sue prigioni le ha raccontate su dei fogli scritti a mano, in stampatello, nelle 27 lettere indirizzate alla professoressa Alessandra Sciurba, docente di Filosofia del Diritto conosciuta durante un laboratorio all’Ucciardone. Da questo scambio epistolare è nato Perchè ero un ragazzo un memoriale di questa vicenda che, nel suo italiano comunque apprezzabile, definirebbe «mesteriosa». Lo scorso giugno la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso per la revisione del suo processo. Il 29 settembre con un permesso speciale per la prima volta Alaa, che in questi dieci anni non ha mai rivisto la sua famiglia, è uscito dal carcere giusto il tempo per parlare del suo libro alla presenza dell’arcivescovo metropolita di Palermo Corrado Lorefice. Quel giorno sul sagrato della Cattedrale di Palermo a dialogare con Faraj c’era anche il giurista ed ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky il quale ha definito quella di Alaa «una storia di resistenza morale». Sottoscriviamo, giustizia per Alaa Faraj.

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