Una nazione canta mentre l'altra muore nel nuovo film di Nadav Lapid

In “Ken (Sì)” il regista mette a nudo la propaganda e la complicità morale in un Israele che continua a celebrare la propria identità mentre Gaza è bombardata
October 17, 2025
Una nazione canta mentre l'altra muore nel nuovo film di Nadav Lapid
Una scena di “Ken (Sì)”, il film di Nadav Lapid presentato alla Festa del Cinema di Roma
Come può un popolo continuare a vivere normalmente mentre si macchia di crimini così orrendi? È questa la domanda intorno alla quale ruota il nuovo film del regista israeliano Nadav Lapid, Ken (Sì), presentato ieri alla Festa del Cinema di Roma nella sezione “Best of”.
Lapid, tra i più influenti, rispettati e visionari cineasti israeliani viventi, pone interrogativi fondamentali che riguardano sia il ruolo degli artisti oggi in un Paese responsabile di massacri quotidiani a Gaza che le inimmaginabili conseguenze della parola “sì”, spesso sinonimo di passiva accettazione, sottomissione, complicità con abusi, violenze e ingiustizie. Nel film, interpretato da Ariel Bronz, Efrat Dor, Naama Preis, Alexei Serebryakov, il musicista jazz Y. e sua moglie Jasmine, una ballerina, frequentano il bel mondo di Tel Aviv, esibendosi alle feste più glamour, consumando alcol, droghe e sesso, abbandonandosi a ogni eccesso e concedendosi a una prostituzione fisica, morale e professionale con una gioia frutto di inconsapevolezza e superficialità. Per il protagonista, convinto che l’acquiescenza della parola “sì” costituisca la premessa di ogni felicità, così dice a suo figlio, le cose cambiano radicalmente quando, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, viene incaricato di comporre la musica per un nuovo inno nazionale. Da quel momento in poi, il musicista dovrà fare i conti con le implicazioni morali della propria arte. La sua ricerca di senso diventa una fiammeggiante esperienza visiva che non accetta regole e compromessi: rabbia, indignazione, paura, sgomento, sorpresa, frustrazione, disgusto, vergogna si mescolano per dare vita a una cacofonica sinfonia di voci, rumori e suoni che restituiscono con efficace originalità il disturbante spettacolo di una nazione accecata dall’odio e dalla propaganda. E contro la quale si schiera in maniera radicale il regista che, attraverso le immagini del film, spesso oniriche, surreali, grottesche, e gli eccentrici dialoghi dei protagonisti, esprime la propria condanna nei confronti del brutale governo di Netanyahu per lo sterminio di una popolazione inerme, affamata, decimata. Se in film precedenti come Synonymes, dove un giovane israeliano al termine di un insensato servizio militare rifiuta la propria storia, e Ahed’s Knee, dove il protagonista rigetta identità, cultura e lingua ebraica, Lapid aveva già manifestato disagio e dissenso nei confronti del proprio Paese e un grande senso di colpa, questa volta il regista ha voglia di urlare e piangere la sua furiosa poesia e il montaggio del film, così simile nella sua libertà armonica e ritmica a una sessione di free jazz, restituisce un malessere quasi fisico causato dalla sofferenza e dalla morte di chi, dall’altra parte di una collina, subisce bombardamenti quotidiani e orrori quasi irraccontabili. Ci prova uno dei personaggi del film a rendere visibile attraverso le parole la lacerazione dei corpi di bambini, donne, uomini, anziani, straziati da animali che si nutrono delle loro carni. La propaganda israeliana dice: noi siamo i buoni, noi soffriamo. Siamo noi le vittime. Ma è dall’altra parte della collina che ci si bagna nel sangue, che si è testimoni di un genocidio. Durante i titoli di testa e di coda del film viene raccontata una storia che aiuta a restituire il senso di questo lavoro. Nel novembre del 2023, in occasione dell’invasione di Gaza, un’organizzazione israeliana chiamata The Civil Front ha pubblicato una canzone, La canzone della generazione vittoriosa, accompagnata da un video clip. Si tratta della versione modificata di The Brotherwood, una delle più celebri canzoni fondanti della storia dello Stato d’Israele, scritta dal poeta Haim Gouri nel 1947. The Civil Front ha usato una melodia simile all’originale composta da Sasha Arigov, cambiando dunque insieme alle parole anche le intenzioni del creatore. Una manipolazione operata all’insaputa e senza l’approvazione della famiglia Gauri. Il film include la versione distorta della canzone a dispetto della decisa disapprovazione della famiglia del poeta e la stessa cosa fa con il videoclip, dove appaiono alcun bambini che, strumentalizzati dalla propaganda (ma ora con il volto coperto), pronunciano parole atroci di incitazione all’odio, alla distruzione, alla supremazia di Israele. Perché chi è nemico di Israele è nemico dell’umanità intera e va dunque eliminato. «Tra un anno – recita il testo – non ci sarà nulla di vivo laggiù. Amore santificato dal sangue. In un anno non crescerà nulla laggiù e noi torneremo a casa salvi. In un anno li annienteremo tutti e ricominceremo a coltivare i nostri campi». «Le relazioni tra individuo e comunità – ha scritto Lapid nelle note di regia – sono il tema intorno al quale ruotano tutti i miei film. Mi interessa raccontare la capacità del singolo di esistere all’interno di un gruppo. E mi chiedo cosa voglia dire oggi essere buoni in mondo sempre più crudele. Ma quello che racconto nel film va ben oltre la situazione di Israele». E a proposito del costante dialogo conflittuale tra il protagonista del film e sua madre, deceduta, il regista commenta: «La madre di Y rappresenta la coscienza e la moralità che sono state fatte tacere, ma che ancora riescono a mettere in discussione stupide idee nazionalistiche e a far piovere pietre su un musicista dopo che questi ha urlato la sua oscena canzone patriottica verso Gaza bombardata. Un’invenzione visiva che ho voluto usare per arricchire il film di una dimensione quasi mistica». E sulle difficoltà di girare in un paese in guerra aggiunge: «Per la prima volta nella mia vita molti tecnici si sono rifiutati di lavorare al film, alcuni a causa del tema trattato, altri a causa mia. Ogni giorno qualcuno lasciava la troupe e ho avute lunghe discussioni con chi non voleva più fare parte del progetto, tanto che abbiamo dovuto assumere alcuni serbi. È accaduta la stessa cosa con alcuni attori che si sono defilati con scuse piuttosto bizzarre. È stato scioccante lavorare in un clima di tensione che rasentava la paranoia. E quando filmavamo i bombardamenti su Gaza ci chiedevamo quante persone sarebbero rimaste vive dopo quelle riprese».

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