Un film per il figlio della 'ndrangheta che non voleva uccidere
Nelle sale “Ammazzare stanca” di Daniele Vicari dall'autobiografia di Antonio Zagari. Grande protagonista Gabriel Montesi: «Un viaggio tra bene e male»

«Di che pasta sei impastato tu? C’è chi nasce pecora e chi nasce lupo». L’eco di questa frase, centrale in Ammazzare stanca-Autobiografia di un assassino, riecheggia come un marchio addosso ai figli della ’ndrangheta. Ma Daniele Vicari, nel film presentato alla 82ª Mostra di Venezia (prodotto da Piergiorgio Bellocchio e Manetti bros.) in sala dal 4 dicembre con 01 Distribution, ci ricorda che la realtà non si lascia rinchiudere in una formula brutale. La storia vera di Antonio Zagari, da cui nasce l’omonimo libro pubblicato negli anni ’90 e oggi riproposto da Aliberti, racconta infatti di un ragazzo cresciuto nell’ombra della malavita che a un certo punto scopre di non essere fatto “di quella pasta lì”.
Siamo nella metà degli anni Settanta, nel Varesotto. Famiglia calabrese trapiantata a Buguggiate, legami pesanti con i boss della piana di Gioia Tauro. Antonio, figlio del severissimo Giacomo, esegue ordini, partecipa a omicidi, rapine, sequestri. Eppure qualcosa in lui non regge. Il corpo si ribella, letteralmente: nausea, vomito, tremori. Per Antonio «uccidere è fisicamente insostenibile». Finirà in carcere poco più che ventenne e lì troverà la sua unica via d’uscita: la scrittura. Nel manoscritto affidato al giornalista Gianni Spartà – che a Venezia ha ricordato che «Zagari si pensava scrittore, forse anche attore. Leggeva Manzoni e Pavese, e aveva sedici omicidi sulla coscienza» – Antonio prova a raccontare la propria verità, e forse a salvarsi. Diverrà collaboratore di giustizia nel 1990 assieme a Saverio Morabito e grazie alle sue deposizioni nel 1994 vengono condannati (tra cui lui stesso) al carcere 42 affiliati alle cosche. Poco dopo scatta l’operazione Isola Felice che porta a 114 arresti tra Calabria e Lombardia. Zagari muore nel 2004 per un incidente in moto avvenuto nella località protetta dove viveva.
Vicari si concentra sul momento della svolta interiore del giovane Antonio e costruisce un film che si muove tra pulp, ironia e dramma, tra accento lombardo e dialetto calabrese, senza indulgere al già visto. Molto fa il cast: Selene Caramazza, luce liberante nei panni della amata Angela; Vinicio Marchioni, feroce padre-boss; un sorprendente Rocco Papaleo come don Peppino Pesce. Ma il cuore del film è il bravissimo Gabriel Montesi.
Il suo Antonio è un ragazzo che si sgretola dall’interno, e Montesi lo interpreta con una misura che colpisce. «Quando ho letto la sceneggiatura non sapevo che fosse una storia vera» racconta ad Avvenire. «Poi ho scoperto Zagari, questa persona che lascia sulla carta una quantità impressionante di parole piene di verità. Era impossibile non approfondirlo».
Un assassino che si sente morire ogni volta che uccide. Montesi ha studiato a fondo la vicenda giudiziaria, il memoriale-autobiografia e le poche immagini rimaste di Zagari. «Nei video aveva quei baffi che gli coprivano un po’ la bocca, come se volessero nasconderlo. Mi chiedevo: cosa c’è dietro?». Da quel dettaglio nasce una maschera, ma subito l’attore la scava da dentro: «Ho creato un viaggio psicologico. Ho trovato un assassino che si sente male ogni volta che uccide. Dentro di lui convivono il mostro e l’umano, il bene e il male».
La ribellione di Zagari, spiega Montesi, non è un gesto eroico: è un impulso fisico, primordiale. «Era il malessere del corpo a parlare. Il vomito, il sangue che non sopportava più. È da lì che nasce il suo desiderio di fuga, prima ancora che dalla coscienza». Per l’attore è stato chiaro fin dall’inizio che il punto non era la criminalità, ma la persona: «Ho dato precedenza all’uomo Antonio. Mi sono chiesto: quante persone devono fare cose che non vogliono fare e si sentono morire dentro?».
Il film incrocia la vicenda di Zagari con l’Italia degli anni Settanta: i movimenti studenteschi, le fabbriche del Varesotto, la generazione che cerca di cambiare il mondo mentre Antonio cerca di salvarsi dal proprio. In casa Zagari, però, incombe un’altra lotta, quella tra padri e figli. «I giovani nati al Nord si sentono diversi» osserva Montesi. «I padri non riescono a integrarsi nel presente. Nasce l’incomunicabilità. Antonio non è accettato dal padre e non è capito».
In un’epoca in cui le serie e il cinema rischiano di romanticizzare il crimine, Ammazzare stanca sceglie un’altra strada. «C’è sempre una cultura gangsteristica che attrae e diventa brama di potere» riflette Montesi. «Ma questo film è diverso. Mette al centro l’umano e non rende eroiche queste figure: sono antieroi vittime di se stessi e del contesto. È uno sguardo soggettivo, quasi una confessione». Una linea che Vicari mantiene anche nella regia, alternando tensione e scarti ironici che arrivano dalla scrittura di Zagari stesso, cruda e sferzante.
A soli 33 anni, Montesi – formatosi alla Scuola Gian Maria Volonté – è già volto centrale del cinema d’autore italiano: dai Fratelli D’Innocenzo (Dostoevskij e Favolacce) a Virzì, da Bellocchio (Esterno notte dove interpreta il brigatista Valerio Morucci) ad Amelio (Campo di battaglia). «Ogni personaggio che interpreto ha un punto in comune» confessa. «Cerco sempre la disperazione umana. Qualcosa che riesca a trasmettere la fragilità delle persone. Quando questo dialogo arriva al pubblico, nasce il cinema umano».
Zagari gli lascia un segno profondo: la consapevolezza che a volte la libertà è un atto minuscolo, quasi impercettibile, che resiste al destino scritto da altri. «Zagari è uno che a un certo punto sceglie» conclude Montesi. «E scegliere, dentro un ordine patriarcale e criminale, è quasi impossibile. Eppure lui lo fa. Non per coraggio, ma perché non riesce più a digerire quel mondo. E vuole rifarsi una vita». Una vita che non ha avuto il tempo di vivere davvero. Ma che in questo film, finalmente, riesce a raccontare.
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