Alfio Quarteroni: «La rivoluzione della IA è tutta esperienza»
di Davide Re
Il matematico italiano entra nei meccanismi dell’Intelligenza artificiale: «L’intelligenza artificiale si fonda su miliardi e miliardi di dati. Solo la conoscenza teorica può verificarne i risultati»

Siamo immersi in un oceano sconfinato di dati. Ma cos’è un dato e come si pone all’interno di quella che oggi chiamiamo tecnologia? A questa domanda risponde il professor Alfio Quarteroni, uno dei più eminenti scienziati nel campo della matematica, già ordinario al Politecnico di Milano, all’EPFL di Losanna e all’università del Minnesota. «I dati sono qualcosa di esperienziale», afferma il fondatore del Mox del Politecnico di Milano, centro che promuovere la ricerca nel campo della modellazione matematica e del calcolo scientifico in ambito scientifico e ingegneristico, e autore quest’anno di L’intelligenza creata. L’AI e il nostro futuro (Hoepli), un’autorevole guida alla comprensione dell’intelligenza artificiale e del suo impatto su vari aspetti della vita umana. «L’obiettivo è sfatare miti e preconcetti, spiegando una rivoluzione tecnologica dall’enorme potenziale. I successi già raggiunti, le speranze che alimenta, ma anche i rischi che presenta, non solo per gli individui, ma per la società nel suo complesso».
Professor Quarteroni, come possiamo definire in modo efficace il concetto di dato?
«I dati sono qualcosa di esperienziale, ovvero di conosciuto, da cui partiamo per ottenere qualcosa di nuovo, sconosciuto, rilevante: per esempio la soluzione di un problema. In astratto, possiamo immaginare di inserire questi dati in una “scatola”, ovvero un procedimento matematico, dalla quale estrarremo la soluzione. Naturalmente il procedimento sarà fondato su una teoria matematica. I dati li possiamo considerare come il carburante essenziale che alimenta il nostro procedimento. Quali dati utilizzare dipenderà dalla risposta che vogliamo ottenere, ovvero dalla soluzione del nostro procedimento. Quest’ultimo è pertanto il mediatore tra dati e soluzione».
Può fare un esempio concreto?
«Pensiamo di voler fare un modello previsionale sulla propagazione nella popolazione di una epidemia, per esempio da Covid. Se pensiamo alla situazione che abbiamo vissuto 5 anni fa, i dati sono quelli che ogni sera alle 17 il ministero della Salute ci forniva in merito alla situazione in corso. Il procedimento, detto anche in questo caso modello matematico, ci permetteva di elaborare questi dati e fornire una previsione di come l’epidemia si sarebbe propagata nei giorni a venire: quanti nuovi infetti, ospedalizzati, deceduti, avremmo presumibilmente avuto, anche in funzione delle strategie di contenimento che avremmo potuto implementare... Nello stesso modo funzionano le previsioni meteorologiche. Un miglioramento nella raccolta dei dati o un miglioramento nella teoria su cui si basa il procedimento matematico permette l’ottenimento di previsioni più accurate».
E l’intelligenza artificiale in cosa si distingue da questo approccio?
«L’intelligenza artificiale si nutre di dati e non di teoria. È questa la vera differenza tra il calcolo tradizionale e questa nuova tecnologia avanzata. I sistemi previsionali che ho spiegato poco fa hanno bisogno di una quantità di dati limitata, in quanto un ruolo importante lo gioca la teoria su cui si basa il procedimento matematico. Diverso è il discorso con la IA. L’intelligenza artificiale non si ispira alle conoscenze scientifiche in senso stretto, non si basa su nessuna teoria, ma sviluppa algoritmi che vengono addestrati a partire da grandi moli di dati. Non presuppone necessariamente la conoscenza del contesto, ad esempio che si tratti di una epidemia da Covid o di altro tipo, è irrilevante per gli algoritmi di IA. Nutrendosi solo di dati, si può dire che la IA si fonda solo sull’esperienza e non sulla conoscenza teorica dei fenomeni studiati, a differenza dei modelli matematici».
Quante IA esistono?
«C’è l’intelligenza artificiale “debole”, oggi dominante – ovvero quella dei sistemi che apprendono da grandi moli di dati per svolgere compiti specifici – e quella “forte” ancora ipotetica, che ambirebbe a replicare nella sua generalità l’intelligenza umana, in particolare, esprimere consapevolezza e coscienza umane».
Ma con la IA annegheremo in un mare di dati?
«A oggi i dati già esistenti sono tantissimi. E crescono con un tasso assolutamente straordinario. Si stima che per la fine del 2025 avremo 175 per 10 alla 21 di dati a disposizione. Ovvero 175mila miliardi di miliardi di dati . Sono i dati che codificano la nostra conoscenza dell'universo, ovvero tutto il nostro sapere, e che ogni 18 mesi raddoppiano. Noi individui, come società, produciamo in ogni istante dati che poi vengono raccolti in giganteschi archivi. Oggi li chiamiamo big data. La loro elaborazione, attraverso un procedimento matematico, genera delle soluzioni che a loro volta vanno ad alimentare gli stessi big data».
Che cosa significa apprendimento quando parliamo di intelligenza artificiale?
«La conoscenza teorica dei processi (fisici, biologici, naturali, economici…) permette di arrivare a delle soluzioni usando un numero limitato di dati. Ma se pensiamo alle intelligenze artificiali cambia tutto. Entriamo in un altro ambito che è quello dell’apprendimento, che per le IA si chiama addestramento degli algoritmi dell’intelligenza artificiale. Pensiamo a un bambino che cresce in una famiglia bilingue. Lui è immerso in una realtà in cui viene stimolato continuamente con parole e strutture grammaticali di cui non conosce la teoria. Sono dati privi di teoria. Imparerà due lingue, avrà vocabolari ricchi, ma non conoscerà né grammatica né tantomeno sintassi. Così funziona la IA, e questa cosa affascinante di fornire soluzioni senza possedere una teoria è potentissima, in senso positivo o negativo, a seconda dell’uso che se ne fa. Esistono così due forme di apprendimento, quella attraverso lo studio di una di teoria (ad esempio come apprendiamo una lingua in un contesto scolastico) e quella appena descritta, ovvero esperienziale. Per questo dobbiamo fare attenzione alle risposte che la IA fornisce: gli algoritmi dell’intelligenza artificiale non hanno alcuna consapevolezza e non poggiano su alcuna teoria in senso classico. Le risposte possono essere anche giuste, ma non si sa come la IA sia arrivata a quella conclusione. La teoria invece offre un dominio nel quale le soluzioni trovate sono verificabili secondo principi noti».
Questo uso vorace di dati da parte dell’intelligenza artificiale pone dei problemi ambientali?
«In effetti, c’è un altro aspetto che mette in relazione i dati con l’intelligenza artificiale, ovvero quello della sostenibilità ambientale. L’addestramento di una rete neurale (le reti neurali artificiali sono gli algoritmi più comunemente usati dalla IA) richiede la realizzazione di giganteschi data center deputati a elaborare enormi quantità di dati. Data center che consumano tantissime risorse del pianeta, dall’acqua per il raffreddamento dei supercomputer all’energia elettrica per l’elaborazione dei dati attraverso le reti neurali. Questo già pone un problema sull’uso etico della IA. Credo sia giusto affrontarlo senza tuttavia avere posizioni dogmatiche. Un altro problema, sempre di natura etica, si presenta quando un medico prescrive una cura suggerita dalla IA, senza saper spiegare perché in quanto, come abbiamo visto, gli algoritmi non si sviluppano su basi di conoscenza teorica. Mi sembra comunque assolutamente legittimo (e utile) usare i risultati che si ottengono grazie alla IA come ausilio per gli esperti di dominio. Come è stato ad esempio nel caso dell’individuazione di nuovi antibiotici o nel design di nuove proteine, scoperte che hanno fruttato recentemente un premio Nobel nella Chimica. Dobbiamo pensare alla IA non come a una sostituzione dell’umano ma come un potenziamento delle nostre capacità e conoscenze. In fondo, tutte le rivoluzioni tecnologiche del passato – industriale, elettrica, digitale – hanno avuto questo ruolo».
* Questa intervista è stata pubblicata sul numero 308 (settembre 2025) di Luoghi dell'Infinito
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