Come smaltiremo la sbornia digitale?
di Raul Gabriel
Il falsario di oggi i chiama IA, ma anche questo è porre il tema su un piano sbagliato: il falsario siamo sempre e solo noi, accondiscendenti alle alienazioni che produciamo dall’inizio della storia

Comprendiamo a livelli diversi. Talmente diversi da dover prendere atto che attraverso il filtro complesso e unico con cui ognuno di noi si affaccia alla realtà, ogni singolo fenomeno genera quantità imprecisate di significati dipendenti da una infinità di fattori variabili e mutevoli. Un groviglio dalle sfumature imprevedibili e non di rado inconciliabili. In questo tempo di bulimia verbale gratuita e strumentale è necessario ricordare che l’utilizzo gli stessi termini non è garanzia né di comprensione né di dialogo. Pensiamo alla parola relativo. Non vi è dubbio che Albert Einstein la pronunciasse esattamente come miliardi di altre persone, intendendo qualcosa di così distante da non essere nemmeno comunicabile.
Non si tratta di una banale cesura nella utopica metrica unitaria del pensiero ma di un vero e proprio disassamento etimologico.
Le interazioni tra esseri umani sono sempre frutto di una media approssimata e grossolana per eccesso o difetto di contenuti che nel loro stesso affiorare portano lo stigma di una instabilità semantica costitutiva.
Ecco quanto è ricco l’humus su cui si rigenera costantemente una babele messa a rischio solo in apparenza dalla promessa distopica e un po’ ingenua del mito di una traduzione universale.
Un esempio di questa sfasatura riguarda i significati correlati ad un aspetto piuttosto intrigante del mondo digitale le cui manifestazioni più acerbe risalgono ad almeno un paio di decenni fa. Nel 2003/2004 un amico collezionista che disegnava prodotti derivati per una potente multinazionale bancaria a Londra, aveva intuito le potenzialità enormi del post mortem digitale, abbozzando una applicazione cui aveva dato un nome suggestivo: Perpetu. Era troppo in anticipo e la cosa, per quel che ne so, finì lì. A quel tempo la questione riguardava più che altro le conseguenze pratiche di un decesso come la gestione dell’eredità virtuale e i suoi modi. Il progressivo articolarsi di un potenziale relazionale user-client sempre più osmotico ha arricchito il tema con una ampia gamma di ulteriori problemi. Tra questi gioca un ruolo fondamentale la illusione di eternità che per sua natura il digitale riesce ad allucinare in infiniti gradi di distorsione esponenzialmente rielaborati dalle IA. Una nuova religione dispenser che promette soluzioni sartoriali alla più ambiziosa delle aspirazioni umane (con qualche eccezione: a me quella idea di eternità appare una disgrazia da cui non vorrei nemmeno essere sfiorato).
La IA non crea nulla da zero, nel senso più radicale del verbo. Intendo dire che non è in grado di costituire alcuna realtà che non sia già, magari criptata nei meandri di un reale per sua natura perennemente instabile e metamorfico. Ciò che fa l’intelligenza artificiale è raccogliere e amministrare un potere che cediamo alla architettura computazionale perchè ne sintetizzi rappresentazioni convincenti e funzionali, surrogati improbabili di un spirito assoluto la cui ricomposizione arbitraria (combinatoria, statistica) è amputata dal binomio soggetto-oggetto cui si sostituiscono l’ input indifferenziato ibrido umano-tecnologico e il percorso obbligato dell’hardware.
Non è l’IA che offre un catalogo di universi alternativi, siamo noi permanentemente alla ricerca di illusioni come presidi psicoterapeutici placebo, a riflettere la materializzazione di mondi che in quella forma non esistono, risposte ingannevoli alle nostre frustrazioni e speranze.
Il cambio di prospettiva è fondamentale.
Alimentare la superstizione secondo cui le tecnologie portano con sè una alterità alternativa effettiva e dialogica apre a narrative inesauribili di fantasie su cui costruire immaginari deep-fake del tutto illusori. La IA siamo noi, non potrebbe essere diversamente, proiettati in uno strumento dalle potenzialità di calcolo praticamente illimitate che succede senza essere.
Che gli uomini aspirino a parlare con i morti è una storia vecchia come il mondo, così come la tensione all’eternità, concetto perlopiù nebuloso e fideistico necessariamente privo di una qualche consapevolezza concreta. L’alter ego di un fuoco, un fulmine, il sigillum bene in vista nel larario familiare, il medium ottocentesco con i suoi trucchi dozzinali e via di seguito sono i palliativi ingenui di una malattia incurabile. E provvidenziale. Autentica la necessità, totalmente fantasioso il risultato. Il falsario di oggi si chiama IA, ma anche questo è porre il tema su un piano sbagliato. Il falsario di oggi siamo sempre e solo noi, accondiscendenti alle alienazioni che produciamo dal principio della nostra storia.
La IA per sua natura non è né falsa né vera. Accade di un pragmatismo rinnovato, infiltrante e proteiforme che sembra non ammettere repliche solo perchè confondiamo colpevolmente i suoi piani di pertinenza con la sfera delle scelte. Il resto è reflusso magmatico di una umanità incapace di evolversi dai suoi istinti animisti primordiali con scelte faticose e mature. E’ anche per questa ragione che prendere la scorciatoia di spiritualità digitali, trovata estemporanea di un misticismo al momento incapace di raccogliere la sfida enorme della contemporaneità, è un percorso fallimentare in partenza. Il disastro non si vede subito, si struttura in un processo educativo deviato e subdolo, fatto di pratiche quotidiane la cui divaricazione con ciò che si è nel profondo prenderà corpo nel tempo.
Il discorso è profondamente impopolare solo perché la massa degli utenti ha rinunciato a qualsivoglia senso critico per il caleidoscopio multicolore proposto da imbonitori scaltri della scaltrezza da mercato che aiuta a sopravvivere, non a crescere. Le dimensioni inedite ci sono, ma non appartengono al dispositivo, che piace pensare come novello pantocratore alieno pocket size, post-sintattico, agevole, disponibile, personalizzabile.
L’illusione di eternità riposta nel digitale è talmente stupida da venire confusa con l’idea di una certa permanenza. Ma la permanenza dei dati ingabbiati nei vari dispositivi linguistici software e hardware si stacca inesorabilmente da noi una volta prodotta e non traghetta alcuna forma di presenza, ulteriore frammentazione di specchi andati in frantumi su cui si proietteranno altri utenti pronti a credere a una modalità di eternità del tutto immaginaria.
La glassa multicolore dei ricami narrativi sulla IA va drenata con rigore e riportata sul fronte affascinante pressoché inesauribile di una rivoluzione operativa del verbo. Per non trovarsi d’un tratto di fronte ad una umanità satolla di illusioni vuote che finirà per vomitare in un oceano di insoddisfazione cui nessuno potrà dare risposta, se non quella di bombe e fucili, ultimo tremendo presidio della concretezza, indipendente dalla proliferazione tenace di fandonie infantili e colpevoli.
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