Zingaretti: «Sono Caino, l’antieroe di Camilleri»
Applaudito debutto alla Festa del Teatro a San Miniato per l’attore e regista che, nel centenario della nascita, dà voce all’ultimo lavoro che lo scrittore doveva portare in scena

«Forse non avete capito. Sono Caino. Caino, il primo assassino della storia umana». Appena Luca Zingaretti entra in scena, sullo sfondo della cattedrale romanica di San Miniato, cala il silenzio. Il popolare attore tiene il pubblico inchiodato per oltre un’ora con le parole potenti, ironiche e attuali tratte da Autodifesa di Caino, l’ultimo testo di Andrea Camilleri. Applauditissima la prima assoluta alla 79ª edizione della Festa del Teatro di San Miniato, Pisa, dove lo spettacolo replica fino a stasera, per poi concludersi il 31 luglio al Cretto di Burri a Gibellina.
Come Conversazione su Tiresia, anche Autodifesa di Caino era pensato per essere portato in scena da Camilleri stesso, alle Terme di Caracalla nel 2019. La sua scomparsa lo ha impedito. Ora, nel centenario della nascita dello scrittore, la Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato, diretta da Marzio Gabbanini, ne cura la messa in scena insieme a Zocotoco srl e alla Fondazione Teatro della Toscana. La regia è dello stesso Zingaretti, accompagnato in scena dalle evocative musiche dal vivo di Manù Bandettini e David Giacomini.
Lo spettacolo segna anche un ritorno alle origini. Camilleri, da giovane, fu aiuto regista a San Miniato accanto a Orazio Costa. L’anno scorso, negli archivi locali, è emerso un suo testo inedito del 1954, Il Santo nero. In Caino, Camilleri riscrive la figura biblica attingendo anche a fonti ebraiche e musulmane. Un testo che parla di scelte, libero arbitrio, Dio, perdono e accettazione.
Zingaretti, questo è un progetto che le è stato affidato dalla Fondazione Camilleri e che la vede anche come coproduttore. Come nasce?
«Mi hanno detto: “Fallo tu, prendilo in mano.” Da 25 anni la mia società produce teatro, cinema e TV. Non volevamo fare solo uno spettacolo, ma una celebrazione vera del centenario. Una tournée? Non mi sbilancio, ma vedo che al pubblico arriva...».
Quanta responsabilità c’è nel prestare la voce a Camilleri?
«All’inizio ho detto no. Era un testo che avrebbe dovuto fare lui. Ma mi hanno detto: “Proprio perché sei il volto che più ha rappresentato le sue opere”. Così ho iniziato a cercare una chiave, a parlare con chi gli era vicino. E mi sono ricordato del suo sguardo ironico, anche su se stesso. Caino dice: “Ora vi racconto io com’è andata.” Non è comico, ma ha leggerezza. E nel finale si difende, tirando le somme della vita. Come Camilleri fece, commuovendoci, alla fine del suo spettacolo su Tiresia: “Sono qui in questo teatro perché sto facendo le prove per intuire che cosa sia l'eternità”.»
Caino accusa gli uomini di guerre, genocidi, femminicidi… È un testo molto attuale.
«Sì. Gli uomini cercano sempre un capro espiatorio. È facile dire che tutto è cominciato con Caino, ma lui dice: “Il male è dentro ognuno di noi.” E anche: “Il male è necessario perché esista il bene.” Ci chiede di giudicarlo secondo coscienza».
Alcune frasi di Camilleri vengono proiettate sulle pareti dell’arcivescovado. Quali hai scelto?
«Una è la prima regola della città fondata da Caino: “Il rispetto è reciproco, non si può alzare le mani su un fratello.” Un’altra riguarda l’accoglienza: era un bene assoluto, a cui nessuno poteva sottrarsi. E poi una frase di Eli Wiesel: “Caino si è macchiato, ma Abele non disse nulla davanti a Dio. Quando qualcuno soffre, devi soccorrerlo.” Attualissima».
Per lei, chi è Caino?
«È un uomo che vuole raccontare la sua verità. Ho cercato di restituire la sua esperienza. Camilleri era un uomo di teatro: sapeva che scrivere per il palco significa tagliare, selezionare. Questo testo è un canovaccio pieno di temi. Io ho cercato l’essenza».
Lei è stato allievo di Camilleri, volto di Montalbano, regista degli ultimi episodi. Com’è cambiato il vostro rapporto?
«All’Accademia d’arte drammatica ci trattava da colleghi, non da allievi. Era straordinario. Poi ci siamo persi di vista. Lessi il primo romanzo di Montalbano e rimasi fulminato. Provai a comprare i diritti, ma non sarebbe mai passato in TV con me. Quando un produttore li prese, feci il provino e lo vinsi. Chiamai Camilleri solo dopo. Mi disse: “Non tifavo per te, ma farai un buon lavoro.” E aveva ragione».
E quando hai avuto un blocco sul personaggio?
«Lo chiamai, gli dissi che non riuscivo a farlo uscire. Rispose: “Non ti riesce perché usi ancora la testa. Dimenticatela, lasciati andare.” Il giorno dopo lo richiamai. Mi disse solo: “Non mi rompere…” Era il suo modo per svegliarmi. Funzionò. Quando se ne è andato, è stato doloroso. Non solo per l’uomo, ma perché se ne andava un pezzo del mio orizzonte professionale».
Cosa resta di Camilleri, secondo lei?
«In tempi come questi mancano persone autorevoli. Quelle che aprono sentieri. Camilleri era una di queste. Quando uno così manca, il vuoto si sente».
Da attore a regista: che cosa l’ha spinta a passare dietro la macchina da presa?
«Vengo dal teatro, dove è l’attore a raccontare. Ma al cinema è il regista. Mi piace raccontare storie anche da un punto di vista produttivo. Recitare mi diverte ancora, ma sentivo il bisogno di uscire da certi panni».
Come mai per il suo primo film da regista ha scelto “La casa degli sguardi” di Daniele Mencarelli?
«È una storia di dolore e rinascita. L’amore che ti fa rivedere le stelle. Parla anche di lavoro, amicizia. E ha una parte divertente che bilancia il dramma. Il dolore nella nostra società è demonizzato, ma è necessario. Attraverso di esso possiamo risorgere».
Ci sono nuove produzioni in arrivo?
«La Preside, su Eugenia Carfora, che ha trasformato una scuola a Caivano in un’eccellenza. La sua missione è chiara: ogni bambino deve avere le stesse opportunità. È un messaggio fortissimo, che vogliamo portare sullo schermo».
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