«Il voto ad Haiti entro l'estate è un'impresa titanica»

Parla Françoise Arielle Dominique, una delle colonne della diaspora negli Usa: «Se ci saranno elezioni, saranno con le gang e per le gang»
December 14, 2025
«Il voto ad Haiti entro l'estate è un'impresa titanica»
Bambini e ragazzi sfollati nella periferia di Les Cayes, a sud di Haiti
Dalla Florida, Haiti dista appena due ore di volo. Benché vicini, due mondi lontanissimi. Eppure, negli Stati Uniti ci sono almeno 3 milioni di persone che portano Haiti nel cuore. Sono i discendenti dei “boat people”, o immigrati essi stessi. L’ultimo censimento ne ha contati 1,2 milioni. «Ma le cifre ufficiali non dicono il vero, perché non tutti dichiarano le origini», precisa Françoise Arielle Dominique, già direttrice esecutiva della Fondazione haitiana-americana per la democrazia e cofondatrice della Rete delle donne haitiane. Nata e cresciuta a Port-au-Prince, vive a Miami.
Cosa sa di Haiti la diaspora negli Usa?
Ognuno di noi vorrebbe poter tornare ad Haiti, per viverci o in vacanza o come seconda residenza. Chi è arrivato di recente o ha i familiari là si informa quotidianamente. Chi è nato qui si interessa, ma con meno regolarità. Ci sono poi le organizzazioni a servizio della comunità haitiana – associazioni di infermieri, medici, ingegneri, Camera di commercio – e diverse fondazioni che mantengono contatti e realizzano missioni umanitarie, portando medicinali e raccogliendo fondi per le scuole. Sono tutti connessi con l’identità e la cultura haitiane. Sanno che la capitale è in mano alle gang, che lo Stato è al collasso, che ci sono enormi difficoltà economiche. Negli ultimi cinque anni la situazione è precipitata.
Dopo il fallimento della forza multinazionale a guida kenyana, a ottobre, l’Onu ha approvato l’invio di una missione più militarizzata, la cosiddetta “forza anti-gang”. Una via d’uscita?
Penso che ci sia molto da imparare dal vuoto lasciato dai kenyani. Dovevano essere duecento o trecento, ma non sono arrivati così in forze. Dovevano avere un certo equipaggiamento, e non l’avevano. Dovevano coordinarsi con la polizia, ma ad Haiti la polizia è debole. Prima di inviare un’altra missione, si dovranno garantire finanziamenti e personale adatto alla guerriglia. Non puoi andare ad Haiti, sostituirti alla polizia e ripartire. Bisogna ascoltare gli esperti locali. Gli haitiani sanno cosa ha funzionato e cosa no.
Il governo di transizione ha annunciato elezioni per l’estate 2026. Realistico?
Vista da qui, un’impresa titanica. Non sono un’esperta di elezioni, ma Port-au-Prince e l’area metropolitana sono fuori controllo. Ci sono 1,4 milioni di sfollati, le gang tengono in ostaggio la popolazione. Come si può pensare, in pochi mesi, di garantire la sicurezza degli spostamenti? Mia madre vive a Pétionville, nei dintorni della capitale, ma ha una casetta a Furcy, sulle montagne. Da quattro mesi non la può raggiungere, non sa neanche se c’è ancora. La gente della zona è dovuta fuggire, le bande hanno incendiato tutto. C’è voluto un anno per formare questo governo. Ero direttrice esecutiva del gruppo di diaspora che ha aiutato i negoziati, nel gennaio 2024. Sono passasti quasi due anni e la situazione non è cambiata. Come si può pensare che, di qui all’estate, la gente possa votare in massa? Perché bassa affluenza significherebbe elezioni contestate e instabilità politica, punto e a capo. Un attivista per i diritti umani mi ha detto: «Se teniamo elezioni, saranno con le gang e per le gang».
Ritiene che la diaspora possa avere un ruolo decisivo per la rinascita di Haiti?
Sì e no. Sì, perché la diaspora qui è maturata in una forza strutturata e molti suoi esponenti ricoprono ruoli di spicco nella società: sono di origini haitiane, ad esempio, l’ex presidente di Harvard e l’ex direttore politico della Casa Bianca, poi big advisor della campagna elettorale di Mamdani, sindaco di New York. Tuttavia, servono due elementi perché la diaspora possa avere un peso decisivo. Da parte nostra, manca una struttura di coordinamento. E su questo stiamo lavorando. Da parte di Haiti, manca la capacità politica di assorbire e gestire. In mancanza di questo, si continuerà a limitarsi agli sforzi individuali e di piccoli gruppi. Contributi spesso ingenti, ma emergenziali.
Vede segnali di speranza?
Quando c’è gente, c’è speranza. Mia madre vive là e vuole restare. Ci sono organizzazioni, artisti. La maggior parte della popolazione ha meno di 26 anni. È un Paese con una storia di soli 250 anni. Sì, c’è speranza.

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