Haiti, il grande esodo verso Les Cayes di chi fugge dalle bande

di Lucia Capuzzi, inviata a Les Cayes
Dopo aver vagato da un quartiere all’altro di Port-au-Prince, centinaia di migliaia di profughi della violenza cercano rifugio nelle province rurali, soprattutto nel sud dell’isola dove sono arrivati in 200mila
December 14, 2025
Haiti, il grande esodo verso Les Cayes di chi fugge dalle bande
Baracche in lamiere e assi di legno sono alloggi improvvisati per gli sfollati a Camp Perrin, alla periferia di Les Cayes
Le dita forti scivolano rapide sul legno. Di colpo si fermano. C’è un leggero dislivello nella superficie. Frantzso impugna la pialla. Con la sguardo ne accompagna il movimento preciso e inesorabile. Il telo malconcio di un gazebo rudimentale lo ripara dall’implacabile sole tropicale di A Camp Perrin, quartiere di 40mila abitanti alla periferia di Les Cayes, nel sud di Haiti. Incurante dell’afa, l’uomo va avanti. «Deve essere perfetto. Stavolta questo tavolo non devo dividerlo con loro», afferma. «Loro» cioè le truppe delle gang. Oltre duecento eserciti di fortuna che si sono spartiti Port-au-Prince nel collasso delle istituzioni. A Fontamara, dove Frantzso viveva e svolgeva piccoli lavori di falegnameria, comandava Christ Roi Chéry, alias “Krisla”, capo della banda Ti Bwa. Erano i suoi soldati a riscuotere il “pizzo” per ogni pezzo realizzato.
«Non c’era un costo fisso. L’unica cosa certa è che dovevi pagare. Ho resistito finché ho potuto». Poi, lo scontro con i rivali di Gran Ravine s’è fatto sempre più violento. Per i civili, soprattutto, intrappolati nei quartieri trasformati in campi di battaglia. «Una volta, un commando ha cominciato a dare la caccia agli abitanti casa per casa. Ho fatto a malapena in tempo a prendere la carta di identità. Con mia moglie e mio figlio abbiamo aperto la porta e siamo scappati senza guardarci indietro». Quella sera dell’estate 2020, Frantzso e la sua famiglia sono diventati profughi, condizione che riguarda il 12 per cento degli haitiani per un totale di oltre 1,4 milioni di donne e uomini, secondo l’ultima rilevazione dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim): l’810 per cento in più nel giro di due anni. Per loro è cominciato il lungo esodo. In realtà, sarebbe più corretto parlare di “esodi”. Un estenuante vagabondaggio, di zona in zona, all’interno della stessa capitale – prima a Delmas 21 poi a Gressier – per sfuggire alla progressiva espansione delle gang. Uno sforzo vano: in pratica l’intero territorio metropolitano è finito sotto il loro controllo. Incluse le strade d’accesso, ormai blindate.
Impossibile entrare o uscire per merci ed esseri umani: quasi 400mila sfollati interni sono intrappolati in 97 campi improvvisati in scuole, piazze, uffici pubblici. Chi riesce a fuggire è costretto a gincane sfibranti e, soprattutto, a versare un lauto “pedaggio” ai banditi. Solo nel maggio 2024, Frantzso ha potuto racimolare i 500 dollari per il viaggio in barca fino a Petit-Goâve e da lì, in bus, ha raggiunto Les Cayes. L’approdo, lo chiamano. Un settimo di quanti fuggono dalle gang – più di 200mila – si sono rifugiati nel capoluogo della provincia meridionale dell’isola e dintorni. La quota maggiore. E il numero cresce man mano che le bande avanzano nelle aree centrali intorno a Port-au-Prince. A sud non sono arrivate, come in buona parte della remota Haiti rurale, lontana dall’élite politica ed economica che le ha create salvo poi perderne le guida. Almeno per ora. «Non ho più nulla. Finalmente, però, mi sento al sicuro. La notte ho ripreso a dormire». Lo stesso pensa il suo vicino, Berthelemy, fuggito da Delmas 21, nel centro di Port-au-Prince il 15 settembre 2024. «Per non far radere al suolo la mia casa devo pagare 80 dollari al mese a Viv Ansanm. È duro, non ho più lavoro ma cos’altro potevamo fare? Sopravviviamo grazie ai miei parenti che ci hanno accolto in casa». I profughi della nuova guerra di Haiti, in pratica, percorrono a ritroso il percorso dei propri genitori e nonni negli ultimi decenni. Soprattutto dagli anni Novanta quando l’Amministrazione Usa – all’epoca guidata dal democratico Bill Clinton – ha imposto l’eliminazione delle tasse di importazione sui prodotti statunitensi. Una catastrofe per il rudimentale settore primario locale. Incapaci di competere e ridotti in miseria, i contadini hanno lasciato i campi per riversarsi nelle baraccopoli urbane, cresciute a dismisura. Ora la nuova emergenza spinge i discendenti in direzione opposta. A differenza di quanto accade nel tessuto metropolitano, non si concentrano nelle tendopoli.
L’85 per cento degli sfollati si appoggia alle reti familiari. «Purtroppo chi li accoglie è povero quanto loro. Nelle baracche non c’è posto: con lamiere e assi di legno, dunque, si improvvisano altri alloggi dove trovano spazio, come a Camp Perrin. Almeno, però, non sono in un campo profughi...», spiega Blaise Isgledy della Caritas di Le Cayes che assiste quanti non possono contare sui parenti. Come Georges: ha perso prima i due figli in una sparatoria a Cité Soleil nel 2024 e ora la sorella che l’aveva accolto a Les Cayes. Semiparalizzato per un ictus, giace sul pavimento di terriccio di un tugurio senza luce nella baraccopoli di La Savane. «Guidavo il bus. È stato tanto tempo fa. Ora non so più nemmeno camminare. E non ho nessuno…», balbetta.
Dal terrazzo del Chilax bar, Allenby Augustin, osserva le vie strette del decadente centro storico di Les Cayes stracolme di gente. Il direttore del prestigioso Le Centre d’Art di Port-au-Prince – da 90 anni riferimento per la promozione della cultura nazionale e caraibica – è tornato nella città dove è nato, l’11 luglio quando la sua casa è stata ridotta in cenere. Due giorni prima, al termine di una battaglia di 48 ore, la polizia aveva recuperato il centro, occupato nel marzo precedente dalle truppe di Renel Destina, meglio noto come Ti Lapli, boss della banda di Grand Rivine. «Ci siamo rifiutati di chiudere, così abbiamo deciso di lavorare online e spostare corsi e workshop fuori dalla capitale. E andiamo avanti così, non sappiamo quando potremo tornare nell’edificio. Almeno c’è ancora, come pure i seimila manufatti della collezione principale nonché l’archivio».
Ormai la gran parte degli artisti s’è trasferita all’estero a causa del conflitto. «La mia famiglia sta a Boston. La capisco. Non riesco, però, lasciare Haiti – conclude Allenby Augustin –. Negli Usa posso vivere ma solo in quest’isola riesco ad esistere. Quando mi sento giù osservo le persone, come faccio ora. Mi fisso sui volti, sulle voci, sui gesti. Sono loro a darmi speranza. Nonostante tutto sono capaci ancora di sorridere».

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