«Io, giornalista di Gaza rifugiato in Italia ora voglio tornare a casa»
Safwat Kahlout, reporter palestinese pluripremiato di 52 anni, ha fatto domanda di rimpatrio nella Striscia: mi manca la mia terra, e non solo il solo. Vogliamo ricostruire tutto

«Sono uscito da Gaza ormai quasi due anni fa, ma Gaza non è ancora uscita da me. Ed è per questo che voglio tornarci al più presto». Safwat Kahlout, giornalista palestinese di 52 anni, non esita un istante quando parla del suo futuro, pur sapendo che la sua scelta può sembrare folle: dopo l’avvio della prima fase del piano di pace, ha subito presentato domanda per rientrare nella Striscia attraverso il valico di Rafah. E non è il solo. Spiega ad Avvenire che tanti palestinesi rifugiati all’estero stanno cercando di tornare a Gaza, spinti dal bisogno di ricostruire le proprie vite e di riabbracciare quel poco che resta delle loro comunità. Dal marzo dell’anno scorso Kahlout vive in Italia insieme alla moglie, ai loro sette figli – che hanno tra i 13 e i 25 anni – e all’anziana suocera. Si sono stabiliti tutti in una casa in provincia di Terni grazie al sostegno di una Ong locale, e anche perché lui, in gioventù, aveva studiato nel nostro Paese, mantenendo la residenza. A Gaza, Kahlout ha lavorato per alcune delle principali testate internazionali – dal New York Times al Guardian, alla Bbc – e nel 2010 è entrato nella redazione di al-Jazeera, seguendo in prima linea tutti i conflitti che si sono succeduti nella Striscia. Nel maggio scorso ha ricevuto il premio “Colombe per la pace” dell’Archivio Disarmo; un anno fa era stato chiamato a ritirare il premio Tiziano Terzani, dedicato alla memoria delle giornaliste e dei giornalisti uccisi a Gaza. Premi che riconoscono il suo coraggio, e che oggi rendono ancora più evidente la portata – e la determinazione – di una scelta che per molti sarebbe del tutto impensabile, ma che per lui significa semplicemente tornare a casa.
Che notizie ha da chi è rimasto nella Striscia?
Sento quasi ogni giorno i miei genitori, i miei fratelli e tanti parenti, amici e colleghi che sono ancora laggiù. Dal punto di vista psicologico posso dire di esserci rimasto anch’io perché Gaza non è ancora uscita da me. Dopo la pace la situazione non è migliorata come speravamo, al contrario di quanto si sente dire in giro. Si soffre meno la fame rispetto a prima ma secondo le statistiche, e stando anche a quanto mi dicono i miei contatti sul posto, adesso entra appena il 10% del cibo che servirebbe per superare l’emergenza nutrizione indotta dal governo israeliano. Inoltre è già iniziato l’inverno, che da noi è molto freddo, e non esiste praticamente più alcuna infrastruttura che consenta di difendersi dalla pioggia. Hanno distrutto tutto, e le tende dove la gente si è rifugiata sono state allagate. Ogni giorno ricevo appelli da amici e conoscenti che ci chiedono aiuto per comprare vestiti e coperte per affrontare l’inverno, perché da un paio d’anni le famiglie non hanno più alcun reddito e metà della popolazione è stata costretta a evacuare le aree in cui abitava e a concentrarsi in poche zone molto affollate.
Ma nonostante tutto ha fatto richiesta per tornare nella Striscia di Gaza.
Sì, voglio tornare per primo, non appena sarà possibile. Poi, quando le cose saranno migliorate davvero, mi seguirà anche la famiglia. Mi manca Gaza, mi mancano mio padre, i miei fratelli, i miei amici. Ma soprattutto mi manca la mia patria. Alcuni pensano che sia una scelta quasi folle, perché voglio tornare a tutti i costi mentre tutti cercano di scappare per mettersi al sicuro. In realtà, sono già migliaia i palestinesi sfollati in questi due anni che si sono iscritti al sito dell’ambasciata palestinese al Cairo per rientrare a Gaza. Ognuno di loro è intenzionato a tornare per ricostruire la propria casa, per riaprire le attività e le aziende che sono state distrutte. Altri vogliono semplicemente ricongiungersi ai parenti rimasti là. Ognuno ha i suoi buoni motivi per voler tornare, poco importa se all’inizio ci toccherà vivere nelle tende. Quella è la nostra terra e vogliamo tornare a viverci. In fondo, noi palestinesi siamo abituati da decenni a vivere nella precarietà, a sopravvivere con il poco che abbiamo e ripartire da zero non ci spaventa.
È in attesa di rientrare ormai da qualche settimana. Da cosa dipende la possibilità del suo ritorno?
Il nostro destino è come sempre nelle mani di Israele. Bisogna vedere se e quando il governo di Tel Aviv deciderà di riaprire il valico di Rafah sia in uscita che in entrata. Al momento intende farlo solo per consentire l’uscita, per favorire l’evacuazione da Gaza. Siamo in attesa di capire come si accorderanno con l’Egitto, sperando che gli americani spingano per una riapertura in entrambi i sensi facendo pressione su Israele per questo. Nei prossimi giorni, Trump dovrebbe dichiarare l’inizio dell’attuazione della seconda fase dell’accordo. Speriamo che Netanyahu accetti finalmente di aprire il valico con l’Egitto per farci rientrare.
Cosa dicono i figli della sua scelta? Vogliono tornare anche loro?
Come tutti i palestinesi, anche i miei figli non hanno mai conosciuto la libertà. L’hanno sperimentata per la prima volta qua in Italia, poiché prima non avevano mai avuto la possibilità di uscire da Gaza. Sono felici, talvolta quasi increduli di poter vivere senza posti di blocco o altre limitazioni della libertà personale, senza dover chiedere permessi agli israeliani per fare qualsiasi cosa. Per loro è un’esperienza bellissima, un sogno da cui non vorrebbero mai svegliarsi. Al momento, sono decisi a terminare gli studi e vedere come evolve la situazione a Gaza. Se ci sarà davvero una pace stabile e un piano che riuscirà a garantirà un futuro alla Striscia. Vogliono partecipare anche loro alla ricostruzione della nostra patria.
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