martedì 13 ottobre 2015
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Come ha spiegato lo stesso Sergio Givone rispondendo alla lettera di Renzo Cavenago che manifestava dubbi sull’eventualità che zero elevato a zero dia come risultato qualcosa e non sia equivalente al nulla, «lo zero, contrariamente a quanto credevano i Greci, è un numero, tanto che la parola e la stessa da cui deriva “cifra”». Givone aveva svolto alcune considerazioni domenica 27 settembre su questo giornale a partire dalle teorie dell’astrofisico Stephen Hawking, sostenendo che Big Bang e «creatio ex nihilo» non sono in contraddizione e il numero zero sarebbe la spia di questa volontà di Dio di non abbandonare il mondo e l’uomo al nulla. Anche don Sandro Lagomarsini ha colto la provocazione del filosofo: «L’elevazione a zero è una operazione inesistente. Però... “Due alla terza” diviso “due alla terza” fa uno (come dire otto diviso otto fa uno). Ma siccome la divisione di potenze con la stessa base si può abbreviare sottraendo gli esponenti, “due alla terza” diviso “due alla terza” mi dà “due alla zero”; questo non “fa” ma corrisponde a uno». Interviene ora Giandomenico Boffi, matematico dell’Università degli Studi Internazionali di Roma. Se x è uno dei numeri reali (i numeri che a scuola impariamo ad associare con i punti di una retta) e se k è un numero intero positivo (1, 2, 3, etc.), tutti sappiamo assegnare un significato alla potenza x alla k. Si tratta del numero reale ottenuto moltiplicando x per se stesso esattamente k volte. Ad esempio, se x è 3 e k è 4, allora x alla k è 3 per 3 per 3 per 3, cioè 81. Oppure 0 alla 3 è 0 per 0 per 0, cioè 0. Se tuttavia siamo così perversi da volere ammettere la possibilità che k possa anche essere il numero 0, che cosa può significare moltiplicare x per se stesso 0 volte? Vale a dire, che numero possiamo associare all’espressione x alla 0? A scuola ci hanno detto che, per convenzione, x alla 0 si pone uguale a 1. Ci sono vari modi per convincersi, almeno in alcuni casi, della plausibilità della convenzione, ma in effetti si tratta di una cosa sottile (occorre ad esempio accertare che la convenzione non entri in contraddizione con altre affermazioni matematiche acquisite) e la cui opportunità non è forse immediata. Per spiegare in che senso si tratti di una cosa sottile, e per la soddisfazione del lettore matematicamente orientato, riporto qui quel che afferma Nicolas Bourbaki nel primo capitolo della parte algebrica della sua opera monumentale Elementi di matematica .  Nicolas Bourbaki è lo pseudonimo collettivo assunto nel corso del Novecento da un gruppo di brillanti matematici, per lo più francesi, i quali hanno scritto gli Elementi di matematica per esporre in modo sistematico una vasta parte della matematica conosciuta, anzi per descrivere in un certo senso la grammatica del linguaggio matematico. L’ambiziosa allusione agli Elementi di Euclide è trasparente.  Supponiamo di avere un insieme M non vuoto di elementi, corredato di una qualche operazione associativa tra di essi (una moltiplicazione). Supponiamo inoltre che esista in M un particolare elemento u con la proprietà che il prodotto tra x e u, oppure tra u e x, restituisce sempre x, per ogni scelta di x in M (M sta per “monoide”, u sta per “unità”). Allora Bourbaki considera la famiglia vuota di elementi dell’insieme M (sì, proprio la famiglia priva di elementi) e pone u uguale al prodotto degli elementi di tale famiglia vuota. In particolare, per ogni possibile elemento x dell’insieme M, risulta x alla 0 uguale a u. Nel caso speciale in cui M siano i numeri reali e l’operazione tra di essi sia la consueta moltiplicazione, u non è altro che il numero reale 1 e quindi x alla 0 è uguale a 1 per ogni numero reale x; risulta pertanto 0 alla 0 uguale a 1. Naturalmente ci sono alcune buone ragioni per interessarsi (qui e in varie altre parti della matematica) al cosiddetto insieme vuoto, sebbene sia un poco controintuitivo. Recentemente su questo giornale, da parte di Sergio Givone, Sandro Lagomarsini e altri lettori, sono stati avanzati alcuni dubbi proprio sull’uguaglianza tra 0 alla 0 e il numero 1. Ciò non sorprende, se soltanto si considerano le sottigliezze cui ho accennato. Tuttavia c’è probabilmente dell’altro. Nel contesto del calcolo infinitesimale, si introducono potenze x alla k con k non solo intero positivo, ma addirittura numero reale qualunque (moltiplicare 3 per se stesso un numero di volte pari alla radice quadrata di 2 ?!). Precisamente, in modo a prima vista alquanto intricato, si assegna alla potenza x alla k il numero reale exp(h), dove exp è la funzione esponenziale e h è il prodotto tra i numeri k e ln(x); qui ln indica la funzione logaritmo naturale. Poiché la funzione ln esiste solo per x positivi, la definizione esclude ogni potenza x alla k con x non positivo; in particolare esclude ogni potenza 0 alla k, anche la precedente innocua 0 alla 3. Adesso l’introduzione delle potenze a esponente reale consente di considerare funzioni del tipo f(x) alla g(x), dove x è una variabile reale ed f(x) e g(x) sono funzioni reali di quella variabile. Quando accade che, per x tendente a un numero c, f(x) tende a un numero limite p e g(x) tende a un numero limite q, ci si chiede che rapporto abbia il numero p alla q (se definito) con il limite per x tendente a c della funzione f(x) alla g(x) (se tale numero limite esiste). In particolare, se p e q sono ambedue nulli, ci si chiede se la funzione f(x) alla g(x) abbia limite 0 alla 0. Poiché esistono casi in cui il limite di f(x) alla g(x) risulta diverso da 1 (ovvero da 0 alla 0) pur essendo p e q nulli, si suole dire che 0 alla 0 è una 'forma indeterminata'. Quel che qui è indeterminato, tuttavia, non è tanto il valore della potenza 0 alla 0, ma la possibilità di ricondurre immediatamente a p e q nulli il valore del limite di f(x) alla g(x), il cui calcolo va invece effettuato per altra via («risoluzione dell’indeterminazione»).Per esigenze tipografiche non si è adottata l’usuale notazione di potenza.
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