venerdì 21 gennaio 2022
Gianni Spinelli nel libro "Zeman per sempre" indaga intorno al mondo metafisico del più misterioso e letterario degli allenatori di calcio apparsi nel campionato italiano.
Zdenek Zeman con la sciarpa

Zdenek Zeman con la sciarpa - Disegno di Maurizio Di Feo

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Giorni fa, sono rimasto per dieci minuti a fissare la foto di Zdenek Zeman, che a sua volta fissa i suoi giocatori mentre compiono l’estenuante, quanto rituale – per lui – saliscendi dei gradoni dello stadio Zaccheria di Foggia. Non c’è un ex allievo del tecnico boemo, che anche di notte, a distanza d’anni, non rammenti, magari nel dormiveglia, quell’allenamento che noi umani non possiamo comprendere e in cui è concentrata tutta la filosofia di questo pensatore unico e inimitabile prestato al gioco del calcio. Sì perché il caro vecchio Zeman, classe 1947, ormai fa parte della letteratura, un capitolo a parte della storia di cuoio. Un uomo divisivo come pochi. I suoi detrattori, parecchi, quasi tutti gli juventini, lo accusano di essere un perdente di successo. Mentre per noi, amanti del calcio romantico e di poesia, sempre più minoranza, siamo consapevoli fin dal primo incontro di trovarci dinanzi al “Kafka del pallone”. Per il professor Fabio, protagonista del libro di Gianni Spinelli, Il gol di Platone. L’arte del calcio tra cronaca, filosofia, letteratura, psicologia e Zeman (Sedit), esperto della Primavera di Praga e lettore onnivoro di Milan Kundera, Zeman è più che la sostenibile leggerezza dell’essere, quasi un’entità spirituale.

Vocazione quasi divina quella del boemo

«Dio creò il pallone, lo diede a Zeman e disse: “Vai a insegnare il calcio”». Questo l’incipit della precedente prova narrativa di Spinelli. Un bracconiere di storie di cuoio, da sempre saldo sulla sua torre di Montaigne appostata tra lo stadio San Nicola, tempio de “la Bari” (di cui è storico di scuola non sudista, ma breriana), e il laboratorio permanente zemaniano di Foggia. Da qui, assistiamo basiti come quando vent’anni fa raccoglieva bottigliette piovute dagli spalti per colpire i suoi giocatori, all’eterno ritorno del boemo: il quarto alla guida dei “diavoletti” foggiani relegati nel girone infernale della serie C. Non all’amore, né al denaro, né al cielo, si deve questo ritorno a un passato che per l’inossidabile Zdenek – invecchiato solo nel volto rugoso che ne certifica il peso del tempo – non è affatto una terra straniera. Di tutte le città in cui ha allenato in questi quarant’anni da guru della panchina, compresa la corregionale Lecce, Foggia è sicuramente la meno bella per colui che ha fatto dell’estetica e della velocità in campo un dogma.

«Zeman è rock», ebbe a dire l’interista Adriano Celentano. Zdenek icona pop, cantata dal romanista Antonello Venditti che ne La coscienza di Zeman chiede al maestro del gioco offensivo: «La folla sta impazzendo ormai All’attacco vai. In difesa mai. Tu non ti fermerai. Perché non cambi mai. Perché non cambi mai...». Non cambia il suo credo, e questo essere coerente con se stesso e con le proprie idee, è un tratto che lo accomuna allo scrittore Spinelli che, quando tralascia la narrativa pura, subisce la sindrome di Stendhal dinanzi all’opera zemaniana. Per l’autore dell’ultima agiografia Zeman per sempre (Sedit. Pagine 125. Euro 14,00) – corredata dalle «metafisiche» illustrazioni di Maurizio Di Feo – il tecnico è artisticamente parlando un Picasso. Filosoficamente ha punti di contatto con Socrate, un Kant che ha mutuato la lezione di Locke e Rousseau. E se poi andiamo a sfogliare le antologie letterarie, allora Zeman flirta a zona, in rigoroso 4-3-3, con Dante, Leopardi, De Amicis, Pasolini, Brera, Soriano, Sciascia, Bufalino, Galeano, fino al poeta deLa solitudine dell’ala destraAcitelli. L’approccio psicologico con il calcio, metafora della vita che scorre attorno a un prato verde, è junghiano, e poi c’è la teatralità folle di Carmelo Bene, le pause televisive di Celentano, la verve comica di Antonio Albanese che per primo, nelle edizioni cult di Mai dire gol ha celebrato «mister simpatia Zeman» e il suo Foggia dei miracoli.

Anche un monumento della zona grigia letteraria del ’900, Manlio Cancogni, prima di volare via quasi centenario aveva reincarnato il boemo nel personaggio assonante di Zoran, protagonista del suo romanzo Il Mister (Fazi, ripubblicato da Mursia). Ma non perdiamoci dietro le nuvole delle cento sfumature di Zdenek, e seguiamo piuttosto la direzione tracciata dal massimo esegeta di “Zemanlandia”, ovvero Gianni Spinelli. Più di tutti il visionario barese si è avvicinato alla poetica del praghese, scavando alla radice golemiana.

In Italia grazie a zio Vycpàlek, scampato al lager

Quella del figlio del professor Karel Zeman, luminare della medicina e pioniere delle tracheotomie, è un personaggio olimpico. Inizi pratici e teorici nella pallamano e poi nel volley, inseguendo il nume famigliare, zio “Cesto”. Un capitolo fondamentale del libro di Spinelli è dedicato alla figura peculiare di Cestmir Vycpàlek, lo zio materno di Zeman. Senza di lui, il boemo forse non solo non si sarebbe appassionato al calcio, ma non sarebbe mai arrivato in Italia. E anche lo “zio Cesto” ha rischiato di inabissarsi prima di volare, nel 1947, a Torino (primo straniero del dopoguerra tesserato dalla Juventus), perché le “SS” per otto mesi lo rinchiusero nel lager di Dachau. «Nell’ottobre del 1944 ero uno scheletro vivente, con una casacca a righe, che stringeva il filo spinato di un orrendo campo di concentramento nazista», ricordava Vycpàlek. Racconti che hanno forgiato lo spirito riflessivo anche dell’amato nipote che durante la Primavera di Praga dimorava a Palermo in visita allo zio Cesto. Vycpàlek palermitano d’adozione, dopo che la Juventus dell’Avvocato lo aveva ceduto in dono all’amico fraterno di zingarate, il Principe Lanza di Trabia, patron del club rosanero. Ma alla Juve sarebbe tornato per allenarla al posto di Armando Picchi (morto di cancro a 35 anni) e vincere due scudetti di fila (1971-’72 e 1972-’73) e per far innamorare dei colori bianconeri anche il nipote “Zdenku”.

Un genio incompreso, specie dall'amata Juventus

Il giovane Zeman conobbe Boniperti e accarezzò il sogno di sedersi un giorno al posto dello zio Cesto. Ma anche quando a Licata e poi a Foggia diede segnali importanti da stratega di razza, la Juve lo bocciò. L’Avvocato la pensava più o meno come Gianni Brera che definì il boemo «tetro ginnasiarca, carceriere dello Spielberg». Giudizio ingiusto verso l’uomo che per primo tra i suoi colleghi ha detto «no al doping» con il proclama di Predazzo – luglio 1998 dove era in ritiro con la Roma – : «Fate uscire il calcio dalle farmacie! ». Il processo per doping alla Juventus lo ha reso il nemico numero uno di molti ex gerarchi del sistema, ma dall’alto della sua onestà intellettuale li ha messi a tacere tutti, e uno in particolare: «Io sono ancora qui nel calcio, Moggi no, è radiato». A chi lo accusa di non aver vinto nulla in carriera, fa notare che «con me nessun presidente c’ha mai rimesso i soldi ». Zeman è un educatore prima che un allenatore di calcio. A Trigoria, un giorno che Francesco Totti si rifiutò di fare un autografo lo prese da parte e sigaretta in bocca gli disse serafico: «Se un tifoso viene e ti chiede un autografo devi essere disponibile, perché verrà il giorno che rimpiangerai tutta quella gente e quei bambini che adesso ti chiedono una firma su un foglio perché ti vedono come loro punto di riferimento». Zeman, alla soglia dei 75 anni (li compie a maggio) è ancora un punto di riferimento per i millennials del suo Foggia che prova a schiodare da queste esistenze liquide in cui galleggiano: «Oggi i ragazzi stanno sempre più chiusi in casa, mummificati davanti a uno schermo a questo dannato Facebook. Ho la sensazione che non sappiano relazionarsi con il mondo esterno ». Questo oggi, dice la coscienza di Zeman, e anche quella di Spinelli.

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