Luciano Zani - archivio
25 luglio 1943: una data storica che cambiò definitivamente il volto dell’Italia stretta già da tre anni nella morsa della Seconda guerra mondiale e sulla via del collasso sui diversi fronti del conflitto. Un arco di tempo, quello che va dal 25 luglio all’8 settembre 1943, che Luciano Zani, storico della Sapienza Università di Roma, mette sotto la lente d’ingrandimento per restituire una fotografia in bianco e nero di un Paese lacerato dai bombardamenti Alleati nelle città italiane e con la popolazione allo stremo per via della dilagante povertà e mancanza di beni di prima necessità e di materie prime. «Quei 45 giorni sono certamente l’inizio di due anni cruciali della storia d’Italia, ma per il nostro paese sono piuttosto un epilogo e una fase di passaggio – spiega Zani -. L’epilogo di una guerra ormai perduta dall’Asse a Stalingrado e con la sconfitta in Africa, il passaggio, incerto e confuso, ambiguamente giocato tra Italia e Germania, verso un’uscita dell’Italia dalla guerra, che consentisse di pagare il minor prezzo possibile sia con gli Alleati che con i tedeschi. L’irresponsabile gestione di questo passaggio, iniziata il 25 luglio e proseguita con l’armistizio dell’8 settembre - la sua gestione, non l’armistizio in sé, che era necessario e se mai fu tardivo -, ha prodotto un esito opposto a quello sperato, facendo pagare un prezzo enorme al popolo italiano, tra i bombardamenti alleati sulle città e le stragi dei nazifascisti in lenta ritirata verso il Nord della penisola».
Professore, allora come rileggere il 25 luglio?
Vorrei ribaltare alcuni luoghi comuni duri a morire. Per farlo occorre non solo leggere i documenti, com’è ovvio per uno storico, ma leggerli nelle loro diverse successive versioni, tenendo conto di quando, dove e come sono stati scritti, e anche dei silenzi, di ciò che non è stato detto quando si poteva e si doveva dire. Il quadro è quello di contraddizioni e menzogne a non finire, per consentire ai gerarchi di costruirsi una verginità politica inesistente, a Mussolini di giustificare la fucilazione di Ciano, De Bono, Gottardi, Marinelli e Pareschi dopo il processo di Verona nel gennaio ’44, e perfino, per certi versi, preparare una sorta di autoassoluzione collettiva di un’intera classe dirigente. I gerarchi firmatari dell’ordine del giorno Grandi non avevano intenzione di defenestrare Mussolini e di porre fine al regime fascista, ma di restaurare le funzioni dello Stato e dei suoi organi, esautorati dall’accentramento ipertotalitario voluto dal duce, e invitare Mussolini a pregare il Re di assumere il comando delle Forze Armate. La vera svolta non avviene nel Gran Consiglio nella notte tra il 24 e il 25 luglio, ma con il colpo di Stato ad opera del Re e dei vertici militari nel pomeriggio del 25 luglio, con le dimissioni e l’arresto di Mussolini.
Due eventi rilevanti…
Si, sono contigui temporalmente, ma non collegati da un nesso di causa effetto. Mussolini era pienamente informato dal segretario del Pnf, Scorza, delle intenzioni dei gerarchi e perfino del testo elaborato da Grandi; avrebbe potuto non convocare il Gran Consiglio, fermarlo in qualunque momento, evitare ordini del giorno non suoi e votazioni, reagire in svariati modi, ma nulla fece, accettando le dimissioni da fedele servitore del Re, ringraziando e facendo gli auguri a Badoglio, auspicando di potersi ritirare a casa sua, alla Rocca delle Caminate: una passività che è sintomo della presa di coscienza definitiva della sua fine, travolto da una guerra perduta – la guerra, aveva scritto, è “la Corte di Cassazione per il giudizio sui popoli” - e dal fallimento dell’illusione di trasformare gli italiani in invincibili guerrieri fascisti di un’Italia militarista, imperialista, razzista. La gestione ambigua e irresponsabile dell’armistizio dell’8 settembre culminò con la precipitosa fuga del Re e di Badoglio a Brindisi dopo la colpevole mancata difesa di Roma per difendere la Corona ma soprattutto se stessi, e la “consegna” ai tedeschi dell’esercito, un “sacrificio” inspiegabile, perché l’esercito era l’unica carta reale, istituzionale, politica, militare e simbolica da usare nelle trattative con gli Alleati e contro la prevedibile reazione tedesca. Dopo essere stati utilizzati da Badoglio nei 45 giorni per reprimere nel sangue i primi moti popolari dopo oltre venti anni di dittatura, i militari italiani furono abbandonati a sé stessi, privi di ordini, ma furono capaci di dar vita alla prima vera resistenza, a Cefalonia, Lero, Corfù, Porta San Paolo, Acerra, Piombino e in decine di altri luoghi ed episodi eroici. Così come contribuiranno massicciamente, in uomini e armi, a organizzare le prime formazioni partigiane.
Lo stesso vale per gli Imi, gli Internati militari italiani, la cui storia resta una testimonianza senza precedenti…