martedì 11 gennaio 2022
Il primo Nobel africano torna al romanzo dopo 50 anni con una dolente satira contro la corruzione del governo in Nigeria e fanatismo di Boko Haram
Lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986

Lo scrittore nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986 - Boato

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«Tutta la tumultuosa esperienza degli ultimi anni, il confinamento, l’aumento delle contraddizioni nella società, la disumanizzazione o la progressiva scomparsa di ciò che chiamo umanesimo, è andata acquisendo una dimensione tale da richiedere un altro strumento per trasmettere le mie ansie, le mie preoccupazioni. Non sono un romanziere, il romanzo non è il mio ambito preferito. Ma mi sono reso conto che avevo bisogno di ritornare a questo strumento di espressione per riflettere le mie ossessioni».

A 87 anni Wole Soyinka si mantiene in grande forma fisica e letteraria. Lo incontriamo a Madrid, alla conferenza stampa per la presentazione del suo romanzo Cronache dal paese della gente più felice della Terra( Alfaguara) di prossima uscita in Italia per La nave di Teseo, dopo quasi 50 anni dal suo ultimo romanzo.

Il grande drammaturgo e poeta, primo autore africano e nero a essere insignito del Nobel per la letteratura nel 1986, è sempre fedele a se stesso. Al ferreo impegno per la dignità umana con cui anche nell’ultima opera, amara e profonda, attacca l’abuso di potere, l’ingiustizia, le violenze delle dittature africane e il terrorismo che infesta la natia Nigeria. «Sono i temi che mi inquietano e ho approfondito in saggi, poesie, in teatro o conferenze e nella mia Ode laica per Chibock e Leah», ricorda l’intellettuale nigeriano. È l’ode in cui Mandela incontra idealmente una delle studentesse rapite da Boko Haram in un villaggio nigeriano e non ancora liberata, è stata portata in scena anche in Italia. Nel caso dell’ultima opera, rileva, «un poema lungo non sarebbe stato la forma giusta, mentre un articolo era insufficiente. La narrativa era il mezzo migliore per esprimere quello che sentivo dentro».

L’azione si svolge in una Nigeria immaginaria, tra scaltri predicatori e inquietanti profeti, maggiordomi del popolo e imprenditori, politici coinvolti in un traffico di organi umani, impiegati in rituali magici, per propiziare business e potere. In un’epoca in cui il terrorismo imperversa e Boko Haram uccide centinaia di civili, è il dottor Menka - specializzato in amputazioni a vittime di attentati - a rivelarlo a un vecchio amico d’università, ora in auge per aver ricevuto un importante incarico alle Nazioni Unite. C’è però chi è determinato a mantenere la cospirazione segreta a ogni costo.

Il romanzo è un potente affresco della cruda realtà del Paese, la satira dolente di un potere sordido e ubiquo. E, dunque, chiediamo all’autore, come riconoscerlo? «Per il contrasto frontale con l’autorità, intesa come struttura di controllo della società», replica Akinwande Oluwole Soyinka, che è il suo autentico nome. «Il potere può essere dato a certi individui, ma è un fenomeno arbitrario. È crudele, inaffidabile, antidemocratico e profondamente disumano nella Nigeria di oggi. L’autorità – osserva - agisce in tandem, è complementare con il sentimento di libertà. Il potere non può, perché non tollera la libertà».

È stato grazie alla parola se Soyinka ha potuto salvare la vita e la ragione. Quando - già drammaturgo affermato a Londra - fu incarcerato durante la guerra civile nigeriana a fine anni Settanta, accusato di cospirazione per un articolo che esortava a cessare il fuoco. In cella d’isolamento per 22 mesi, scrisse le memorie della terribile esperienza su carta igienica, che avvolgeva in cartine di sigarette o fra le pagine di libri, poi pubblicate in L’uomo è morto ( Jaca Book).

Nelle Cronache dal paese della gente più felice della Terra il pessimismo che traspare dalla domanda morale sottesa alla narrazione – da dove nasce tanta brutalità e perché finisce con l’imporsi nella comunità? – è appena stemperato dal linguaggio caustico, a cominciare dal titolo. «Quando in scritti critici mi rivolgo ai potenti so che l’ironia andrebbe sprecata, perché difficilmente la capirebbero», rileva l’autore. «E non mi riferisco solo al potere di Stato ma a quello del quasi-Stato fondamentalista teocratico, nei cui confronti bisogna essere molto diretti, brutali, ai limiti del pubblicabile, quando in gioco c’è la sottomissione o il dominio. Se, invece, gli interlocutori sono lettori cui mi rivolgo attraverso la narrativa – prosegue – ricorro alla satira come risorsa letteraria per sedurli, perché diventino miei complici e cospiratori».

Per l’autore de Il peso della memoria, la tentazione del perdono( Medusa), anche l’autoironia è una legittima difesa: «Il solo modo di prendere le distanze dalla propaganda nelle terribili circostanze che tento di descrivere». Il crocevia fra corruzione, fanatismo religioso, eredità della violenza e divisione coloniale e nuova diaspora, in un continente dove «ci limitiamo a sostituire imperatori bianchi con quelli neri».

Tuttavia Soyinka non crede che l’attribuzione del Nobel ad Abdulrazak Gurnah, originario della Tanzania e come lui educato in Inghilterra, sia dovuta al bisogno di riparare omissioni del passato. «Sono stato molto felice che il premio sia tornato in Africa – afferma –. Non credo nelle quote geografiche. I lettori occidentali rappresentati dall’Accademia di Svezia cominciano ad accorgersi della grande ricchezza della produzione artistica nel continente africano, non solo in letteratura. La missione dell’istituzione è sorprendere ed educarci universalmente a essere coscienti che le meraviglie sono ovunque».

Eppure, per il drammaturgo, il Nobel non è stato un cammino di fiori: «Una delle crudeltà è la perdita di anonimato », assicura, citando Bernard Shaw. Soprattutto, «è un’arma a doppio taglio. Non c’è essere umano che non dia valore a un tale riconoscimento, che però è anche un onere difficile da sostenere, e un esercizio di resistenza quotidiana», riflette. «Dà una certa protezione ma, al contempo, suscita un carico di rancore per la visibilità internazionale, che è un modo di sottrarsi al controllo del tiranno. Persi un amico poeta, Ken Saro Wiwa, combattente ecologico impiccato dal dittatore Sani Abacha», ricorda Soyinka. Fu nel 1995: «Abacha lo fece uccidere in tutta fretta con altri 8 attivisti del 'Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni' per sfidare deliberatamente la comunità internazionale. Il credito che Saro Wiwa riceveva in patria e all’estero ebbe un ruolo nel suo assassinio». Per questo, riprende l’autore del saggio Al di là dell’estetica «anche prima di lasciare la Nigeria sul sellino di una moto per scappare da questo piccolo, repellente dittatore, sapevo che la mia buona sorte era agli sgoccioli. Ho avuto modo di studiare il regime di Abacha a lungo e credo che gli sarebbe piaciuto andarsene alla tomba con un Nobel per la letteratura impiccato nel curriculum».

Soyinka è altrettanto fermamente convinto che «la mia responsabilità di cittadino impegnato nella difesa della libertà sia non perdere questa voce». Una voce dolente perché «il senso umano sta scomparendo». Cosa possono trovare le nuove generazioni nella sua opera? «Con un po’ di fortuna, analizzare con più attenzione il potere acquisito in termini di democratizzazione dell’informazione, di condotta e di idee», risponde. «E imparare a cercare un equilibrio fra quella che chiamo la 'cultura di internet' e la narrativa. Spero comprendano che non tutto il mondo si fonda sulle reti sociali e che c’è un’alternativa nella cultura eterna della letteratura e dell’arte. Oltre a coltivare l’ironia», conclude.

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