giovedì 12 gennaio 2012
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Le sue prime poesie conosciute risalgono al 1938-39. Le ultime sono state pubblicate nel 2003. Un arco temporale di 65 anni che abbraccia in pratica tutta la sua vita. Eppure, nonostante tutto ciò che si è scritto su Giovanni Paolo II, prima e dopo la sua beatificazione, uno dei versanti forse meno esplorati è proprio la sua opera poetica, forse perché a torto ritenuta un aspetto minore della grande personalità di questo rivoluzionario Pontefice.A guardar bene, invece, il Wojtyla poeta non è meno sorprendente del Giovanni Paolo II Papa. Anche perché, al di là del loro indubbio valore letterario, i versi che ci ha lasciato, raccolti già da qualche anno in un unico volume (<+corsivo_bandiera>Karol Wojtyla, tutte le opere letterarie<+tondo_bandiera>, presentazione di Giovanni Reale, saggi introduttivi di Boleslaw Taborski, Bompiani editore) contengono <+tondo_bandiera>in nuce<+tondo_bandiera> il magistero del futuro Pontefice. In altre parole si ha come l’impressione che il giovane Lolek prima e il maturo arcivescovo di Cracovia poi abbiano usato la letteratura come una specie di laboratorio della mente e del cuore in cui mettere a punto i grandi temi che qualche decennio dopo sarebbero stati oggetto dell’insegnamento del Papa.Ha scritto il filosofo Giovanni Reale (il quale alla poesia wojtyliana ha dedicato diversi studi) che «quattro sono nelle opere poetiche di Wojtyla i concetti chiave: la persona, la sofferenza, la morte e l’amore». In fondo, queste tematiche sono anche le coordinate fondamentali del suo Pontificato. In alcuni casi, anzi, la corrispondenza, anche dal punto di vista testuale, è impressionante. Se, ad esempio, il poeta Wojtyla riflette sulla realtà del dolore, usando l’originale metafora dell’innesto, il Pontefice gli farà eco 28 anni dopo applicando questa metafora alle proprie molteplici sofferenze.«A me stesso devo guardare come a un tronco/ (…) Ho compreso: bisogna ferirlo per fare posto all’innesto./ Ho compreso: bisogna ferirlo perché ne stilli la vita./ (…) Disse l’albero:/ non temere, se sto morendo/ la morte ha toccato solo la scorza./ Non temere di morire con me per rivivere. Il segno risanerà». I versi risalgono agli anni ’60 e sono tratti da un componimento intitolato Veglia Pasquale 1966. Il 29 maggio 1994, in un memorabile <+corsivo_bandiera>Angelus<+tondo_bandiera>, Giovanni Paolo II – che è appena tornato dal Policlinico Gemelli, dove ha subito una nuova operazione – afferma: «Voglio ringraziare per questo dono della sofferenza. Ho capito che devo introdurre la Chiesa di Cristo in questo Terzo Millennio con la preghiera, con diverse iniziative, ma ho visto che non basta: bisognava introdurla con la sofferenza, con l’attentato di 13 anni fa e con questo nuovo sacrificio. Perché adesso, perché in questo Anno della famiglia? Appunto perché la famiglia è minacciata, aggredita. Deve essere aggredito il Papa, deve soffrire il Papa, perché ogni famiglia e il mondo vedano che c’è un Vangelo, direi, superiore: il Vangelo della sofferenza, con cui si deve preparare il futuro, il terzo millennio delle famiglie».Così il dolore e la morte non sono più porta aperta sul nulla, ma passaggio verso una vita più abbondante e feconda. «Mysterium paschale/ Mistero del Passaggio/ in cui il cammino s’inverte,/ dalla vita passare nella morte -/ È questa l’esperienza, l’evidenza./ Attraverso la morte passare nella vita -/ Questo il mistero», scrive il poeta Wojtyla nella Meditazione sulla morte.
Lo stesso grande discorso di inizio Pontificato («Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!») trova la sua radice nella poesia: «Io ti invoco e ti cerco Uomo - in cui/ La storia umana può trovare il suo Corpo./ Mi muovo incontro a Te, non dico "Vieni"/ Semplicemente dico "Sii"»). Quest’Uomo con "U" maiuscola è Cristo, il Redemptor Hominis "cantato" nella prima programmatica enciclica di Giovanni Paolo II oltre che il modello di persona, che come abbiamo visto è uno dei concetti chiave del pensiero wojtyliano.Gli esempi potrebbero moltiplicarsi. Si rilegga il poemetto Pensando Patria mettendolo in parallelo con il discorso all’Unesco del 1980. Oppure si confronti La cava di pietra, diretta emanazione della sua esperienza di operaio, con il messaggio di fondo della Laborem Exercens secondo cui «il lavoro è un bene dell’uomo» e non una fonte di alienazione. O, ancora, si accostino (per fare anche un esempio relativo ai drammi) La bottega dell’Orefice e l’esortazione apostolica Familiaris Consortio.Poesia e magistero, dunque, stretti in una sorta di parallelismo convergente che giunge infine all’approdo del Trittico Romano, l’unica opera poetica scritta dal Papa durante il Pontificato e pubblicata due anni prima della morte, quasi come un testamento spirituale in versi. Qui, ancora una volta il Papa e il Poeta coincidono perfettamente. Si veda ad esempio il brano in cui l’anziano Pontefice ripensa al giorno della sua elezione nella Cappella Sistina. «La stirpe, a cui è stata affidata la tutela del lascito delle chiavi,/ si riunisce qui, lasciandosi circondare dalla policromia sistina,/ da questa visione che Michelangelo ci ha lasciato./ (…) Ecco, si vedono tra il Principio e la Fine,/ tra il Giorno della Creazione e il Giorno del Giudizio./ Bisogna che, in occasione del conclave, Michelangelo insegni al popolo». In tal modo l’immagine poetica fa ala alla riflessione teologica sul ruolo del Pontefice. E diventa monito per se stesso e per tutti i suoi successori a non dimenticare mai che sempre a quell’Alfa e a quell’Omega deve riferirsi il supremo ministero di pastore della Chiesa universale.
In definitiva è nei versi del Trittico che possiamo trovare la cifra paradigmatica di tutta una straordinaria esistenza. («Penetra, cerca, non cedere/ Se vuoi trovare la sorgente,/ devi proseguire in su, controcorrente»). Il Successore di Pietro, roccia della fede chiamato a confermare i fratelli, è stato in realtà un uomo che fino all’ultimo ha coltivato dentro di sé la ricerca di Dio, anche a costo di andare controcorrente rispetto alle mode culturali, al mondo e talvolta persino ad alcuni ambienti ecclesiastici. «Torrente di bosco, torrente,/ svelami il mistero/ della tua origine!/ Consentimi di aspergere le labbra/ d’acqua alla sorgente,/ di percepire la freschezza/ - freschezza vivificante». L’approdo della ricerca è lì, in quella sorgente che è metafora di Dio stesso e della vita eterna tante volte annunciata dal Papa che ora, beato, la sperimenta.
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