giovedì 30 maggio 2019
Due secoli fa nasceva il poeta che più di altri ha segnato la letteratura americana. Coetaneo di Melville trasmette in versi il sentire moderno e l’indomita vitalità della nuova frontiera
Walter Whitman (1819-1892), poeta statunitense

Walter Whitman (1819-1892), poeta statunitense

COMMENTA E CONDIVIDI

«Io sono il poeta del Corpo e dell’Anima, / in me le delizie del cielo e le pene dell’inferno,/ le prime innesto in me e amplifico, le altre traduco in una lingua nuova ». Poeta del corpo come dell’anima: vive la propria e l’altrui nascita, e nello stesso tempo appartiene a un ordine universale regolato dall’anima: lui, Walt Whitman, il poeta. Il massimo bardo americano, il cantore dell’uomo nella natura e nel cosmo, nasce a West Hill, Long Island, il 31 maggio 1819 (morirà settantatreenne a Camden), 200 anni fa. Straordinaria coincidenza: nello stesso anno nasce Herman Melville: i due fari della letteratura americana, che con loro diviene matura e grande, gli autori del capolavoro in versi, Foglie d’erba, in prosa, Moby-Dick, sono coetanei. Le due opere escono in un quinquennio fatale in cui nasce e prende forma la letteratura americana: nel periodo tra il 1850 e il 1855, detto Rinascimento americano, dal grande critico Matthiensen, vengono alla luce La lettera scarlatta di Hawthorne, Uomini Rappresentativi di Ralph Waldo Emerson, Moby Dick, Walden di Thoreau, e, dulcis in fundo, Leaves grass, 'Foglie d’erba' di Whitman. Che non è solo uno dei massimi libri di poesia di tutti i tempi, ma l’opera più direttamente rappresentativa delle forze vitali di quella civiltà: democrazia intesa come concordia universale, coro di tutte le voci e tutti i canti dell’universo, unendo il vecchio e il nuovo, il passato e il futuro, i vivi e i morti in una inebriante sillabazione, in una solenne versificazione che scandisce l’assoluta unicità dell’istante.

Cantore della natura e della sua anima, è una figura unica nella poesia moderna: crea, come gli antenati greci e latini, dei miti. Insufflato dal demone di Omero, Virgilio, Lucrezio e Ovidio attinge alla natura, vi si immerge generandone una lettura magica, multiforme, favolosa, tramutandone la realtà in mito e poema. Per Whitman la natura non è separata dallo spirito, relegata al mondo vegetale e animale, ma è forza animante che agisce nello stelo d’erba come in ognuno di noi, anelito alla creazione che manifesta il divino nella sua onnipotenza. Fanno parte della natura le città che sorgono popolose come alveari, obbedendo all’istinto umano di aggregazione e socialità, i ponti che l’uomo edifica per congiungere le rive, i traghetti, la ferrovia, al pari delle piste nel deserto, delle foreste immense e delle cascate. Whitman ode e fa udire a noi, nei suoi versi, il canto delle sequoie che come giganti morenti, passano a noi umani il testimone della vita. C’è sempre continuità di vita anche nella morte, trasformazione incessante nella stessa anima. Infanzia a Brooklyn, condizione economiche della famiglia pessime, ricorderà quel periodo e l’adolescenza come tempo d’infelicità. Impossibilità di proseguire studi regolari, lezioni di teatro, lavoro in tipografia e poi giornalista, maestro nelle scuole, vive con lezioni e scritti giornalistici e inizia a viaggiare per tutto il Paese, il Nuovo Mondo. Non diviene ricco, ma nemmeno vive di stenti.

Lavori e aiuti finanziari di ammiratori soprattutto inglesi, gli consentono di vivere compiendo sempre il suo viaggio incessante, scrivendo l’unico libro, che cresce a ogni tappa. Se con On the road, il secolo successivo, Jack Keruac fonderà il mito del viaggio moderno come fuga e disperato presagio di disfatta, quello di Whitman è un viaggio come avventura incessante. Non si muove per fuggire, ma per trovare, trovare altro. Primigenia, nella sua opera, la potenza del mare, il mare la cui voce accompagna e culla i moti del giorno e della notte. Il mare come condizione di lontana nascita e di morte, suono ripetuto, oscillante, cullante, in ultima analisi immutabile. «L’espressione del poeta americano deve essere trascendentale e nuova, deve essere indiretta, e non diretta o descrittiva o epica». Nell’introduzione a Foglie d’erba enuncia i principi della sua poetica, uno sguardo che cerca l’anima del mondo: «la terra e il mare, anima-li, pesci e uccelli, il cielo, le orbite, foreste, montagne, fiumi, non sono temi minori… ma tracce per indicare al poeta la strada tra la realtà e le loro anime ». Il linguaggio, scrive, non è «una costruzione astratta» dell’uomo colto, ma qualcosa che nasce dalle opere e dai bisogni, dalle gioie e dai dolori di innumerevoli generazioni umane, che ha «ampie basi, prossime al suolo», che le parole non sono invenzioni arbitrarie, ma il prodotto di vicende e consuetudini umane. «In potenza e bellezza esse emanano dalle mani del poeta, miracoli della sua bocca, cose lanciate come sassi da una fionda, sfida, coercizione, case, ferro, locomotive, la quercia, il pino, l’occhio aguzzo, il petto villoso, il vagabondo del Texas, il carrettiere di Boston, la donna che eccita l’uomo, l’uomo che richiama la donna». Il mondo ha bisogno di Whitman, l’uomo d’oggi più che mai. L’opera è un vasto poema, necessario alla nostra anima indebolita, o assediata: «Non essere impaziente, ascolta,/ sappi che saluto l’aria, l’oceano e la terra/ ogni giorno al tramonto per amor tuo, mio amore».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: