venerdì 16 febbraio 2018
Il Festival di Berlino parte con il film in stop motion “denuncia” di Wes Anderson, riflessione sui mali di una moderna società votata allo scarto. Un omaggio stilistico a Kurosawa e Miyazaki
Una scena di "L'isola dei cani", film d’animazione di Wes Anderson che ha aperto il 68° Festival dei Berlino e che uscirà nelle sale italiane a maggio (Ansa)

Una scena di "L'isola dei cani", film d’animazione di Wes Anderson che ha aperto il 68° Festival dei Berlino e che uscirà nelle sale italiane a maggio (Ansa)

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Un epico viaggio di formazione per rendere omaggio alla bellezza del cinema giapponese e alla nobile lealtà dei cani, da sempre i migliori amici dell’uomo, all’eroismo delle creature più piccole e indifese e al rifiuto di ogni intolleranza. Per il suo secondo film di animazione in stop motion (dopo Fantastic Mr. Fox) il regista texano Wes Anderson, che ha inaugurato ieri la sessantottesima edizione del Festival di Berlino con L’isola dei cani, è partito da diversi spunti di riflessione per costruire la sua storia d’amore tra un ragazzino e il suo cane perduto.

Siamo in un futuro distopico, nell’arcipelago giapponese, per la precisione nella città di Megasaki, governata dal sindaco Kobayashi che per fermare una terribile influenza canina capace di contagiare anche gli umani ha deciso di deportare tutti i cani della Prefettura, quelli randagi e quelli domestici, relegandoli su un’isola di spazzatura, ribattezzata da quel momento l’Isola dei cani. Sei mesi dopo, a bordo di un piccolissimo aereo, un ragazzino di 12 anni, Atari, atterra in quella desolata colonia di esiliati, sporchi e affamati, per ritrovare il suo amato Spots, il primo cane deportato da Kobayashi.

Su di lui, “dog zero”, sono nate tante leggende, ma nessuno dei cani del lager lo ha mai conosciuto. O almeno quelli che Atari incontra al suo arrivo, Boss, King, Duke, Chief, Rex. Inizialmente sospettosi e ostili, indecisi se mangiarsi o aiutare il ragazzino, i quadrupedi malconci, ma ancora fieri e combattivi, decidono di accompagnare Atari nel suo viaggio destinato a svelare una orribile cospirazione e a cambiare il futuro dell’intero paese.

Anderson non racconta la sua storia in maniera lineare, ma oscilla tra presente e passato stratificando il racconto e sottolineando ironicamente con dei cartelli il passaggio di tempo.

Se i personaggi giapponesi parlano la propria lingua (con sottotitoli che a volte ne riassumono il senso delle loro parole), i cani si esprimono in inglese e vantano voci illustri, come quelle di Bill Murray, Bob Balaban, Jeff Goldblum, Bryan Cranston, Liev Schreiber, Greta Gerwig (che rivedremo la notte degli Oscar), Tilda Swinton, tanto per citare solo gli attori che ieri hanno accompagnato con il regista il film a Berlino. Ma il ricco cast conta anche Edward Norton, Scarlett Johansson, Harvey Keitel e Yoko Ono. Si, proprio lei.

Non è un film pensato per i più piccoli, L’isola dei cani, che vanta un umorismo troppo complesso e sofisticato, decisamente più adatto al pubblico adulto. I dialoghi sono densi, serrati, alternati a lunghi silenzi. Eppure è proprio la purezza dell’infanzia che Anderson vuole celebrare (così come ha fatto anche nel precedente, Moonrise Kingdom - Una fuga d’amore), il coraggio di chi non accetta di guardare il mondo attraverso le lenti dell’odio e di sottostare alle regole di un folle dittatore. La voce del piccolo protagonista umano è di Koyu Rankin, che proprio ieri festeggiava il suo compleanno e al quale il cast ha cantato «tanti auguri a te» durante l’affollatissima conferenza stampa.

«Non sarei in grado di spiegarvi con esattezza tutto il processo creativo di questo film – dice Anderson, che ha scritto la storia insieme a Roman Coppola, Jason Schwartzman, Kunichi Nomura e che ha rubato i nomi dei protagonisti dai cani degli amici –, ma posso dirvi che due grandi fonti di ispirazione sono stati Akira Kurosawa e Hayao Miyazaki. Amo l’uso che fanno dei dettagli e dei silenzi, e come mettono in scena la natura. Senza dimenticare però La carica dei 101, il film Disney che amo di più. Mi piace ricordare sempre Tom Stoppard che dice di iniziare un lavoro non quando ha un’idea, ma quando ne ha due che si mischiano, che collidono».

L’isola dei cani, sugli schermi italiani dal 17 maggio distribuito da Fox, è senza dubbio il film più politico di Anderson. «Il film ha richiesto anni di preparazione e dovevamo inventarci la politica di Megasaki. Un esercizio di fantasia ovviamente, poi il mondo intorno a noi ha cominciato a cambiare e il film è diventato terribilmente attuale. Ma una storia così potrebbe essere ambientata in ogni luogo ed epoca storica». Il 2018 per giunta è pure l’anno del cane, secondo l’oroscopo cinese.

Il tempo passa, le tecnologie evolvono, ma il regista non rinuncia alle sue tecniche artigianali e old fashion. «Nel film è evidente l’uso del computer, soprattutto per restituire ambienti che, anche se miniaturizzati, avrebbero richiesto troppo spazio. Ma amo i pupazzi, con tutte le sfide che ne conseguono, e i modellini, che appartengono alla tradizione del mio cinema preferito, da Alfred Hitchcock a Carol Reed».

E dal momento che la principale abilità di Anderson è quella di costruire mondi, la sua isola spazzatura è un luogo di grande impatto visivo, che racchiude in sé rovine delle diverse fasi attraversate dall’umanità, cumuli di carta e rottami simbolo di antichi progetti falliti. Una terra triste e arida, spazzata dal vento, con la forma di una mano dalle dita distese, ostile e minacciosa, in contrasto con la dolcezza dei suoi abitanti canini.

Una curiosità finale e un po’ paradossale: negli Stati Uniti il film è stato vietato ai minori di 13 anni per la presenza di «immagini violente». Curiosa “cultura”, se così si può dire, quella americana, con i ragazzi che possono invece acquistare armi e costruirsi domestici arsenali. Trasformando le scuole in mattatoi.

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