martedì 14 marzo 2023
Un libro dell’ex abate di Einsiedeln sottolinea la necessità per questo tempo di un cristianesimo semplice e vitale, che prenda seriamente l'urgenza di una conversione
Monaci benedettini in preghiera

Monaci benedettini in preghiera - Siciliani

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Che il cristianesimo in Occidente viva un cambiamento d’epoca (copyright Francesco) è ormai sotto gli occhi di tutti – eccetto per coloro che vivono con la testa girata sul passato. Qualche cifra. In Francia il 2% della popolazione va a messa regolarmente ogni domenica. In Svizzera quanti non appartengono a nessuna comunità religiosa sono passati dallo 0,5% nel 1960 al 22,2% nel 2013. In Germania, idem: nel 1970 i senza religione erano il 3,9%, nel 2013 son balzati al 24%. In Austria tale soglia è del 12% ad oggi, nei Paesi Bassi oltre la metà della popolazione afferma di non essere membro di nessuna fede. E anche da noi i segnali di una secolarizzazione ormai diffusa sono pervasivi e quotidiani.

Che fare, dunque? Come la Chiesa si pone di fronte a questa situazione oggettivamente inedita e per certi versi traumatizzante, almeno per l’Occidente? In un libro denso e talvolta destabilizzante Martin Werlen, per diversi anni abate del monastero benedettino di Einsiedeln, in Svizzera, prova a tratteggiare qualche pista per affrontare un contesto religioso completamente diverso da quanto sono state la cristianità e anche la modernità, stagione, quest’ultima, nella quale la Chiesa aveva trovato un suo modus operandi. Dove andremmo a finire? Una Chiesa che osa la conversione (Qiqajon, pagine 262, euro 16,00) è un saggio molto provocatorio, nel quale si respira la profondità della prassi monastica (ora et labora), visto che le suggestioni che l’autore lancia al lettore sembrano così semplici e dirette (potremmo dire, evangeliche) che solo una densa frequentazione del silenzio e dell’orazione possono favorire e far sbocciare. Come se in un tempo come il nostro, di ritorno del cristianesimo a minoranza, possa venire proprio dall’esperienza monastica un indirizzo di riscoperta e di rinnovata vitalità.

Ha ragione nella sua prefazione il cardinale Zuppi a evidenziare che non tutte «le sue riflessioni sono condivisibili», benché di Werlen non si possa non ammirare la genuina preoccupazione perché il Vangelo sia liberato dalle incrostazioni di una tradizione ecclesiastica che ne blocca la capacità di interloquire e interrogare i nostri contemporanei. Partendo da un assunto che sembra un’eco di tanti, accorati e ripetuti appelli di Francesco: «Per continuare a riscoprire e a vivere la vocazione, le tradizioni devono essere messe in discussione». Si badi, non la Tradizione, ma il minuscolo, e plurale. Le lettere hanno un loro peso.

Nella sua prefazione Zuppi fa eco al monaco: «Le riflessioni dell’autore si collocano dentro l’attuale riflessione della Chiesa cattolica che si prepara al sinodo sulla sinodalità. Credo sia indispensabile questo approccio di confronto evangelico, non da consultorio (con tanta ammirazione per un servizio indispensabile che questi svolgono), perché la chiesa non è un tecnico che fornisce risposte, perché è sempre e solo una madre che trova e ritrova sé stessa e le risposte opportune ascoltando e guardando tutto con gli occhi e i sentimenti del suo Signore».

Prendiamo l’approccio che Gesù ha nei Vangeli e che ha molto di anti-perbenismo e anti-borghese, secondo Werlen. Il quale, riferendosi alla parabola del Padre misericordioso, annota parlando di chi l’ha pronunciata: «Il suo messaggio è sorprendente: Dio va verso i peccatori e i farisei. Vuole stringerli nel suo abbraccio. Permettiamo che ciò accada? Abbiamo il coraggio di convertirci? Ci uniamo anche noi alla festa?».

Silenzio, preghiera, accoglienza, incontro. Werlen, nelle sue brillanti pagine (non è scontato uno stile sobrio e ficcante, nella penna di un ecclesiastico: i capitoletti del testo sono brevissimi e ben impostati), verga una sorta di elenco di buone pratiche che i cristiani dovrebbero testimoniare nel mondo per segnalare la differenza evangelica. Sul silenzio afferma: «Francesco di Sales fissa una restrizione: “Prenditi ogni giorno un’ora di silenzio, tranne quando hai molto da fare: allora prenditene due”. Quanto più abbiamo da fare, tanto più importante è il tempo di silenzio per non alienarci da noi stessi». Riguardo all’accoglienza avanza un paradosso: «L’interrogativo principale non è dunque quello intorno a cui continuiamo a girare: “Chi può venire? Chi può ricevere Cristo?”. L’interrogativo principale è un altro: “Dove dobbiamo andare? A chi dobbiamo portare Cristo?”».

Quando parla della preghiera esemplifica: «Chi pensa di avere Dio in tasca non ha a che fare con il Dio vivente che dobbiamo cercare e che continua a sorprenderci. La ricerca di Dio deve essere l’atteggiamento fondamentale di ogni battezzato». «Werlen ci ricorda la figura di Michelangelo, che per le sue sculture doveva rimuovere il marmo superfluo intorno alla figura. Nel nostro caso, perché questo avvenga occorre passione per Dio e per la sua famiglia, la Chiesa che Gesù ci ha affidato sotto la croce»: il cardinale Zuppi chiosa con queste righe la sua prefazione. Riconoscendo nel monaco svizzero un pungolo profetico e benemerito perché la riforma della Chiesa scaturisca da un atteggiamento orante, perfino sofferto («croce»), e non da rivendicazioni umane troppo umane che possiedono solo il gusto stantio dell’ideologia.

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