venerdì 17 ottobre 2014
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Mettiamola così: se volete fare un regalo a qualcuno a cui volete bene, portatelo a vedere Il sale della terra, il documentario che Wim Wenders ha dedicato al lavoro del fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Presentato in anteprima allo scorso Festival di Cannes, il film arriverà nelle sale il 23 ottobre, mentre il regista incontrerà il pubblico del Festival di Roma domenica 19. Guardare le fotografie di Salgado, che negli ultimi 40 anni ha viaggiato in oltre cento paesi mostrando i mille volti delle Americhe, le miniere d’oro in Brasile, la carestia nel Sahel, il genocidio in Ruanda, uomini e donne al lavoro, e infine la spettacolare bellezza della natura incontaminata, significa non solo conoscere popoli e nazioni, altri uomini e altre donne, assai diversi da noi, ma soprattutto incontrare noi stessi. Più che un film da godersi sullo schermo, Il sale della terra è infatti una grande esperienza emotiva, una testimonianza di amore e bellezza destinata a lasciare un segno profondo nel cuore dello spettatore. Merito naturalmente delle straordinarie immagini di Salgado, ma anche di chi ha saputo sceglierle, mostrarle attraverso il proprio sguardo, raccontandole a sua volta, contestualizzandole con l’aiuto di piccole e toccanti interviste al suo autore che nel rivedere quegli scatti sembra rivivere tutto l’orrore di un’umanità ferita, spesso agonizzante, eppure bellissima.  I figli di un’Africa colpita a morte, ma anche i pozzi di petrolio in fiamme in Kuwait, alla fine della prima guerra del Golfo, mentre a pochi passi, nel lussureggiante giardino abbandonato di uno sceicco, i suoi preziosi animali, ormai soli e sgomenti, sono l’immagine della distruttiva follia umana. Una discesa agli inferi della sofferenza di chi è perseguitato dalla guerra, dalla fame, dalla povertà, eppure è ancora lì, a ribadire la propria dignità di uomo. Perché è proprio intorno al concetto di dignità che ruota il film, come spiega lo spesso Wenders, soprattutto in risposta a chi rimprovera alle fotografie di Salgado una eccessiva bellezza. «L’unico modo per evitare il voyeurismo quando si fotografano sofferenza e miseria è restituire la dignità a ciò che si fotografa. Sono pochi i fotografi che riescono a farlo, e Sebastião è uno di questi. Lui si immerge totalmente nella vita delle persone prima di fotografarle, dà loro una voce, trova il linguaggio che corrisponde esattamente a quello che mostra, regalando nobiltà e dignità al soggetto, rendendolo eccezionale, sia esso un essere umano o un animale». Salgado è così immerso nella realtà che racconta da restarne profondamente turbato, al punto di ammalarsi. Una malattia che sembrava avergli intaccato lo spirito fino a quando non decide di ripartire per realizzare il suo ultimo, monumentale lavoro, Genesi, che in questi mesi è oggetto di una imperdibile mostra itinerante, attualmente al Palazzo della Ragione a Milano fino al 2 novembre. «Dopo il viaggio in Ruanda – racconta ancora Wenders – Sebastião era precipitato in un profondo sconforto, quello che aveva visto era davvero insostenibile. Ha deciso così di ripartire per fotografare quelle vaste zone del nostro pianeta che l’uomo non è riuscito neppure a scalfire ed è stata proprio la natura che gli ha permesso di non perdere la sua fede nell’uomo». Il documentario però non racconta solo lo straordinario talento di un fotografo molto speciale, ma anche il suo toccante rapporto con il figlio Juliano, che firma la regia del documentario insieme a Wenders, e la sua storia d’amore, lunga ormai cinquant’anni, con la moglie Leila. È stato grazie a lei che Salgado, destinato alla professione di economista, si è ritrovato tra le mani la sua prima macchina fotografica scoprendo così la propria missione. È con lei che ha costruito una famiglia, ha messo al mondo due figli, di cui uno affetto da sindrome di Down, e ha fondato l’agenzia Amazonas Images. Ed è ancora con lei che ha pazientemente ripristinato la foresta della fascia atlantica brasiliana piantando due milioni di alberi e trasformando la sua grande fattoria di famiglia, devastata dalla deforestazione, in un parco naturale creando Istituto Terra, progetto ambientale al quale sono destinati gran parte dei suoi guadagni. Wenders, che ha scoperto le fotografie di Salgado 25 anni fa, si accosta alla vita di quest’uomo con rispetto e commozione, scomparendo dietro la macchina da presa per lasciar parlare le immagini. «La sfida più grande è stata la scelta del materiale, dettata per lo più dalle storie che mi raccontava Salgado. Ma mi stava molto a cuore raccontare anche “l’altra vita” di Sebastião, quella con la sua famiglia, importante tanto quanto la storia del suo lavoro. Ho avuto la sensazione di girare due documentari contemporaneamente per restituire tutta la complessità e la ricchezza di un uomo che ha dedicato la propria vita a celebrare la bellezza dell’umanità». 
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