mercoledì 26 settembre 2018
Il regista tedesco parla del suo docufilm su Francesco. «Emozionato leggendo la Laudato si'. Da bambino volevo parlare con gli animali come il santo di Assisi. E ora su Bakhita voglio saperne di più»
Wim Wenders davanti al manifesto del suo docufilm su papa Francesco

Wim Wenders davanti al manifesto del suo docufilm su papa Francesco

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Siamo seduti a un tavolo di giardino di un albergo romano. Il regista Wim Wenders è accompagnato dalla traduttrice. Il tema del nostro incontro è il suo docufilm su Papa Francesco Un uomo di parola, ma il caso, un’immaginetta che salta fuori dal portatile dell’intervistatore, vuole che per qualche minuto l’intervista si inverta e il dialogo inizi con santa Bakhita. Wenders non ne ha mai sentito parlare, ma è affascinato dalla bellezza di quel volto di africana. Chiede chi sia e mentre ascolta in sintesi il racconto della sua vita, dalla schiavitù alla santità, continua a guardare l’immaginetta. «In che zona del Sudan è nata?», domanda. «Nel Darfur». Una regione oggi come allora attraversata da scorrerie di ogni tipo e Wenders si fa ancora più pensoso. Poi vuole chiarimenti su dove è vissuta in Italia. Viene a sapere del grande interesse che aveva per lei Giovanni Paolo II, che l’aveva definita Sorella universale, che Benedetto XVI l’ha ampiamente citata nella Spe salvi, che spesso Papa Francesco l’ha portata come esempio dedicandole anche un ampio passaggio della Gaudete et exultate. Una donna forte, simbolo di come Dio trasformi le persone liberandole dalle loro schiavitù. «Si è istruita in Italia?» chiede ancora. «No. Ha solo imparato un po’ a leggere. Ma tante persone andavano da lei. Tutte ritenevano che fosse santa. Volevano sentirla parlare di Dio che l’aveva liberata. Chiedevano consigli, volevano essere aiutate, liberate anche loro. E anche oggi sono tante le storie, soprattutto di donne, liberate dalle loro schiavitù...». Wenders osserva ancora una volta l’immaginetta. Sorridendo la appoggia sul tavolino, in piedi, accostata a un bicchiere. Poi volge lo sguardo alla prima domanda.

Come Bakhita, anche il Papa, nel film, si mostra con la spontaneità del sorriso e parla di Dio e dei grandi temi della vita con una semplicità che avvince.

«È proprio quello che mi ero proposto quando ho pensato a questo film. Volevo che attraverso il racconto spontaneo del Papa ci fosse un accesso diretto al suo pensiero. Che ognuno se ne potesse fare una propria opinione senza pregiudizi e senza mediazioni».

Cosa l’ha più colpita di questo Papa?

«L’ho conosciuto solo cinque minuti prima di fargli la prima domanda. Mi ha colpito quanto fosse diretto, come mi guardava negli occhi, come mi ascoltava. Tutto quello che diceva era semplice, chiaro, spontaneo. Una qualità molto rara. Mi ha fatto sentire che lui era con- nesso con me senza che ci disturbasse nulla. Entrando nella stanza ha visto la camera da presa, ha visto la sua sedia e mi ha detto: “E tu dove sarai seduto?”. Allora ho spiegato la tecnologia che avevo deciso di usare perché le sue parole risultassero più dirette: lei vedrà il mio sguardo in questo sottile schermo che sta davanti alla cinepresa e guardando me guarderà esattamente nella macchina da presa. Allora lui mi ha chiesto: “E lei cosa vede?”. Ho fatto vedere che io vedevo lui e che lui mi guardava negli occhi. Esiste questa semplice tecnologia fra noi che fa in modo che lei possa parlare a tutti come se parlasse a me. Ha capito subito quale era il mio intento e non ha fatto altre domande. Da quel momento in poi l’intervista si è svolta come se fossimo soli io e lui».

Nel film il racconto del Papa è intessuto con quello di san Francesco. Che rapporto ha con questo Santo?

«La mia famiglia era molto cattolica. Mio padre era un medico, ma per molti anni aveva pensato di farsi prete. Si parlava di santi, ma l’unico santo che ho davvero conosciuto nella mia infanzia è stato san Francesco: era l’uomo che parlava agli uccelli e chiamava ogni essere fratello e sorella e io da bambino ho provato a fare la stessa cosa. Quando nel 2013 è stato dato l’annuncio del nuovo Papa ero in Germania. Conosco il latino e ho subito capito che si chiamava Francesco. Mi sono emozionato e ho pensato: quest’uomo ha coraggio. Non pensavo davvero che lo avrei incontrato».

Nel film è insistente il richiamo del Papa a una Chiesa povera. Cosa ne pensa?

«Penso che abbia ragione. Pienamente. E credo che serva ancora più povertà. Lui sta dando l’esempio. Con la sua vita ci mostra che non è impossibile fare le stesse cose possedendo di meno. È importante mostrarlo oltre che dirlo. Ho visto i buchi nelle sue scarpe e penso che davvero lui non abbia il senso del possesso».

Perché nel film ha scelto di affidare la figura di san Francesco a un attore e non ha usato uno dei tanti film su di lui?

«Quei film li ho visti tutti perché pensavo di prenderne degli stralci. Ma mi sono reso conto che sarebbe stato difficile. Il film di Rossellini, per esempio, non ha retto bene al tempo. I francescani nel suo film mi sono sembrati ingenui, infantili. Ho capito che dovevo dare una mia immagine del Santo. Ho girato una settimana ad Assisi e dintorni con pochi mezzi, nella filosofia di un film che doveva essere povero».

Nel film il Papa denuncia la sordità dell’uomo al grido della Terra che soffre.

«E coloro che sentono questo grido più forte sono i più poveri perché più dei ricchi soffrono le conseguenze delle violenze ecologiche subite dal Pianeta. Mi sono emozionato a leggere la Laudato si’. Ho subito capito quanto fossero innovativi quei collegamenti fra clima, ecologia, povertà».

Il Papa come san Francesco parla con spontaneità della morte. Che rapporto ha Wenders con la morte?

«Credo che avere più chiara la presenza della nostra morte ci renda più presenti anche nella nostra vita».

Era stato ad Assisi già al tempo del film con Michelangelo Antonioni e Tonino Guerra?

«Certo. E ricordo bene quando da Roma siamo partiti per andare a incontrare Tonino in una casa di campagna che Antonioni aveva in Umbria. Abbiamo fatto una grande deviazione per passare da Assisi perché Antonioni ha insistito per passare a ricevere una benedizione per il film. Arrivammo che era notte e la Basilica era chiusa. La moglie di Antonioni, Enrica, ha suonato vari campanelli fino a che qualcuno del Sacro Convento ha aperto. Ci hanno fatto entrare da una porticina nella basilica inferiore e abbiamo avuto la benedizione».

Nel film il Papa dice che questa economia uccide, distrugge, esclude, ma il cinema è da sempre uno strumento di questa economia...

«Sì. E abbiamo seguito il consiglio del Papa. Abbiamo fatto il film con meno di quanto avevamo a disposizione e abbiamo dato quello che è avanzato a una causa personale di Francesco. Non è stato facile, ma la sua domanda è giusta e molto cinema contemporaneo con i suoi budget stratosferici partecipa alla distruzione di questo Pianeta. È davvero scandaloso. Questo è il business. E lo spreco è un’ideologia... Mi fa davvero rabbia, per esempio, che in tutti i set del mondo ogni giorno si usino centinaia di bottigliette d’acqua solo per un sorso... e poi vengono gettate via. Ma anche nel mondo del cinema molte persone stanno sviluppando atteggiamenti diversi. Non vogliono ferire animali, non vogliono sfruttare persone, non vogliono danneggiare le cose e l’ambiente... In generale, però, fare cinema resta un’avventura molto capitalistica».

A proposito... Da bambino è poi riuscito a parlare con gli animali?

«Ho provato intensamente... credo di essere riuscito a ottenere qualche successo con i gatti».

E con gli uomini?

«Abbiamo un linguaggio in comune, ma forse solo apparentemente è più facile».


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