giovedì 8 luglio 2010
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Finora i miei unici voli sono stati voli di fantasia, ma questa mattina ho volato. Sono rimasto in aria per circa dieci o quindici minuti; siamo andati verso il mare, ci siamo librati, siamo tornati sopra la terraferma, abbiamo fatto un giro più in alto e siamo venuti giù a precipizio sull’acqua. E sono atterrato con la convinzione di aver avuto solo un piccolo assaggio di una riserva di piaceri insospettati. Alla prima occasione andrò su di nuovo, e andrò più in alto e più lontano.Questa esperienza ha risvegliato in me tutto l’ardore del mio antico interesse per il volo, che era andato un po’ esaurendosi e spegnendosi per i troppi discorsi che avevo sentito e per le troppe letture in materia, senza averlo mai provato di persona. Sedici anni fa, all’epoca di Langley e di Lilienthal, ero uno dei pochi giornalisti a credere e a scrivere che volare fosse possibile; ciò allora danneggiò la mia reputazione, e produsse nei pochi e scoraggiati pionieri del tempo una gratitudine veramente commossa. Ancora oggi, sopra il camino del mio studio, è appesa la fotografia – mossa e sfocata, ma molto interessante – che il professor Langley mi mandò sedici anni fa, dove si vede il primo congegno più pesante dell’aria che sia riuscito a volare per un breve spazio di tempo. Era un modellino, un affarino che non avrebbe potuto sollevare un gatto; salì avvitandosi nell’aria e tornò a terra senza sfracellarsi, portando con sé, come la colomba di Noè, la promessa di cose formidabili.  Sono passati solo sedici anni ed è divertente ricordare la nostra cautela di credenti convinti nel fare profezie. Io ero uno dei più accaniti; affermai chiaramente che, prima di morire, avremmo visto l’uomo volare. Ma aggiunsi, per non sembrare eccessivo, che per molti anni il volo sarebbe rimasto un’impresa che avrebbe richiesto abilità e coraggio fantastici. Fantasticavamo di difficoltà e di rischi prodigiosi. Ero profondamente impressionato e molto scoraggiato da un testo di un eminente matematico di Cambridge, in cui si dimostrava che una macchina volante era destinata a impennarsi paurosamente, spingendo sempre più su il naso e giù la coda per poi precipitare come una lama. Esageravamo ogni possibile instabilità. Immaginavamo che, anche quando l’aeroplano non "scalciava", avrebbe sbandato al minimo soffio di vento. Uno starnuto poteva capovolgerlo. Paragonavamo il nostro povero equipaggiamento umano all’equilibrio istintivo degli uccelli che avevano dieci milioni di anni di evoluzione alle spalle. L’idrovolante su cui mi sono librato in volo stamattina su Eastbourne con il signor Grahame-White era stabile come un’automobile su una strada asfaltata. Poi passammo dai timori sull’insicurezza alle speculazioni sugli effetti psicologici e fisiologici del volo. Guardando in basso da uno strapiombo o dalla cima di una torre, la maggior parte di noi è assalita da un leggero senso di vertigine, che per alcuni può diventare un vero e proprio terrore. Anche se un giorno gli uomini riusciranno a issarsi nell’aria, ci chiedevamo, non saranno comunque colpiti dallo sgomento solitario e vacillante, tanto da perdere l’autocontrollo? E soprattutto, riusciranno a sopportare il rollio e il beccheggio degli apparecchi senza soffrire di un orribile mal di mare? Quest’ultima paura mi ha sempre messo un po’ in ansia e si è aggiunta al sentimento di viva curiosità con cui stamattina sono salito a bordo dell’idrovolante – quella leggera, piccola paura che è sempre pronta a invaderci ogni volta che siamo sul punto di fare una nuova esperienza: quando tentiamo il nostro primo tuffo, per esempio, o ci lanciamo giù su una pista ghiacciata. Ho pensato che probabilmente mi sarebbe venuto il mal di mare o, più esattamente, il mal d’aria; ho anche pensato che mi sarei sentito molto frastornato e a disagio e avrei sofferto il freddo. Niente di tutto questo è accaduto. Sono ancora stupito della levigata regolarità del moto. Non c’è niente di paragonabile a terra, a parte forse la corsa di una slitta a vela sul ghiaccio perfetto: ma è una cosa che non sono in grado di giudicare. La migliore automobile del mondo, sulla migliore delle strade diventa, al confronto, un mezzo di trasporto scomodo e traballante. Insomma, sono salito sull’idrovolante a Eastbourne con l’idea che volare fosse ancora un’attività sperimentale, scomoda e un po’ eroica, e sono tornato tra la folla festosa sulla spiaggia con la certezza che invece è un’esperienza alla portata di tutti. Volare diventerà molto più conveniente, certo, e più veloce, e potrà essere migliorato in molti modi (bisogna risolvere il problema dell’avviamento del motore, per esempio, sia per gli aeroplani che per le automobili) ma già da oggi chiunque può farlo, se se lo può permettere. Una settantenne invalida avrebbe potuto fare tutto quello che ho fatto io, una volta trovato il modo di calarla sul sedile del passeggero. Entrare nell’abitacolo, in effetti, è stato un po’ complicato: l’idrovolante era ancorato al largo, per raggiungere il mio posto sono dovuto salire sulla schiena del battelliere e poi arrampicarmi con molta cautela tra i fili metallici, ma questi sono dettagli di poco conto. In realtà, non c’è dubbio che volare diventerà un’esperienza diffusa, tanto è vero che sono sicuro che nel giro di pochi anni questa descrizione sembrerà anacronistica, come se avessi voluto registrare le paure e le sensazioni provate durante il mio primo viaggio su un veicolo con le ruote. E credo che già oggi imparare a guidare un idrovolante Farman non richieda molto più tempo, diciamo, del doppio di quello che ci vuole per imparare a guidare una motocicletta. Non riesco a immaginare un giovane che non voglia imparare, se ne ha l’occasione.

Traduzione di Chiara Benzi e Stefano Salpietro © Per la traduzione italiana «Lettera Internazionale»

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