giovedì 28 settembre 2023
Viviamo nel “Wasteocene” e la vera prospettiva per comprenderlo è quella delle periferie. Eppure non si può salvare il pianeta pensando soltanto al benessere di pochi
Un ragazzo in una discarica in Nicaragua

Un ragazzo in una discarica in Nicaragua - Hermes Rivera / Unsplash

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Marco Armiero, storico dell’ambiente dell’Istituto Reale di Stoccolma, parteciperà sabato 7 ottobre alle 18, alla XXI edizione del festival di divulgazione scientifica BergamoScienza, con la conferenza dal titolo “Altro che Antropocene! Benvenuti nell’era degli scarti”, di cui proponiamo una sintesi dei contenuti.

Tra pochi giorni ricorrerà il 60 anniversario del disastro del Vajont. Il 9 ottobre del 1963 circa 2mila persone morirono, uccise dall’onda gigantesca sollevatasi dall’invaso del Vajont. Ancora oggi qualcuno, sbagliando, parla del crollo della diga: la diga è ancora lì, appena scalfita dalla frana – quasi 300 milioni di metri cubi di roccia – che precipitando nel bacino idroelettrico sollevò l’onda gigantesca del disastro. L’anniversario sarà una occasione per onorare la memoria delle vittime e ricordare i soccorritori; tuttavia, è opportuno ricordare che non è sempre stato così. A lungo il Vajont è stato rimosso dalla memoria collettiva, un pezzo di storia con il quale sembrava che nessuno volesse fare i conti. Sono stati Marco Paolini e Gabriele Vacis con la loro “orazione civile” a restituire il Vajont alla memoria collettiva con quel memorabile monologo recitato da Paolini sul palcoscenico della diga e trasmesso dalla Rai il 9 ottobre del 1997.

Oggi, nei giorni del disastro di Derna in Libia, con più di undicimila vittime e due dighe crollate, la storia del Vajont sembra ancora più attuale e universale. Tecnologia e scienza, precauzione e profitto, modernizzazione e potere si mescolano in queste storie di periferia – non siamo certo nel cuore del capitalismo moderno né al Vajont né a Derna. Eppure facendo tesoro di quanto scritto dalla femminista afroamericana Bell Hooks, resto convinto che bisogna guardare il mondo e le sue storie dalle periferie.
Come appare questo Antropocene di cui tanto si parla visto dalla valle del Vajont, o dalla città distrutta di Derna, o magari dai quartieri afroamericani di New Orleans battuti dall’uragano Katrina nel 2005, o dalle periferie di Beira in Mozambico travolte dal ciclone nel 2019? Gli studiosi parlano di Antropocene per indicare una nuova era nella quale gli umani sono diventati una forza geologica capace di cambiare i cicli bio-geo-chimici del pianeta. Sembra una definizione cucita su misura per il Vajont dove davvero gli umani hanno spostato le montagne, come fossero una forza geologica. E se l’Antropocene fa rima con la crisi ecologica, il Vajont spiega con la durezza di una strage che il dominio degli umani sul pianeta assomiglia ad un arrogante e autodistruttivo delirio di onnipotenza. Tuttavia, vista dal Vajont e dalle altre periferie del mondo, questa narrazione mainstream dell’Antropocene rivela tutti i suoi limiti. Perché a guardare il mondo dal cimitero del Vajont e dalle tante periferie dove i poveri e i subalterni sono intrappolati, più che l’Antropocene sembra di vedere il Wasteocene, l’era degli scarti (dall’inglese waste che significa rifiuto). A differenza dell’Antropocene che parla di una umanità avida e arrogante, colpevole della crisi ecologica, il Wasteocene non appiattisce le diseguaglianze, non cede al racconto facile che mette tutti sulla stessa barca e con le stesse responsabilità.
Se proprio dobbiamo usare la metafora della barca, il Titanic è l’immagine più appropriata, perché all’appuntamento con il disastro qualcuno arriva in prima classe e tanti altri in terza. E la probabilità di mettersi in salvo dipende proprio dalla classe in cui si viaggia. Nessuna metafora potrebbe essere più calzante: davvero la classe conta nell’Antropocene. Il disastro visto dalla terza classe, sia essa il Vajont, Derna o un altro inferno su questa terra, non sembra il frutto dell’arroganza della specie umana e della sua pretesa di dominare la natura. Questa logica di specie può funzionare dentro la narrativa mainstream dell’Antropocene ma è del tutto inadeguata a raccontare la realtà del Wasteocene, caratterizzata dalla continua riproduzione di discariche socioecologiche funzionali al benessere di pochi. Non parlo solo delle discariche di rifiuti ma in generale della produzione di umani ed ecosistemi di scarto, corpi e zone di sacrificio dove accumulare ogni genere di tossicità.
La stratigrafia del Wasteocene non è neutrale ma politica perché racconta storie di oppressione e sfruttamento incarnate nell’ecologie del vivente. Al Vajont, nei corpi degli operai, negli ecosistemi soggiogati dalla logica estrattivista non vediamo l’arroganza di specie ma l’oppressione di un modo di produrre e consumare che riproduce ineguaglianze, separando chi vale da chi non vale niente. Ma il Vajont ci ricorda anche un altro tipo di tossicità: per funzionare il Wasteocene ha bisogno di una infrastruttura narrativa tossica che invisibilizzi e normalizzi l’ingiustizia. Non è forse vero che abbiamo preferito dimenticare il Vajont o magari ricordarlo con la neutralità del lutto ufficiale, come se chiedere giustizia fosse una reazione scomposta, inadeguata? L’infrastruttura narrativa tossica rende possibile il Wasteocene perché non consente neppure di vederlo, figuriamoci di provare a sabotarlo. Questo non toglie che in tante periferie del mondo, vicine e lontane, comunità subalterne stiano costruendo una nuova narrazione, raccontando storie di resistenza e condivisione che rivelano l’ingiustizia del Wasteocene mentre provano a costruire relazioni ecologiche e sociali diverse. Non si può uscire dalla crisi ecologica con gli strumenti che l’hanno provocata; non si può salvare il pianeta salvando il benessere di pochi; non si può fare ecologia senza giustizia sociale.

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