venerdì 24 aprile 2020
Un saggio rilegge le “antipatie” giovanili del grande critico e il suo mea culpa. Dal rifiuto di Dürer, Memling e Van Eyck all’idea dell’unità con l’arte italiana
Roberto Longhi ( a destra) con Giorgio Morandi

Roberto Longhi ( a destra) con Giorgio Morandi - .

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In questi giorni dove tutto è reso più difficile, anche se “resti a casa” a volte non sempre i libri che vorresti consultare sono a portata di mano: il libro che cercavo lo posseggo da molti anni, ma non lo trovo, è Il palazzo non finito, che uscì nel 1995 riunendo saggi inediti che Roberto Longhi scrisse fra il 1910 e il 1926, e fra questi uno dei più sulfurei e meno “savi” era intitolato “Keine Malerei” (Nessuna pittura). Scritto nel 1914 era rimasto inedito fino a venticinque anni fa. Lì il giovane Longhi attaccava senza mezze misure tutta l’arte nordica rinascimentale. Per farsi un’idea del tono: «...O finirà una buona volta questo odiosissimo agnello di scivolare sul prato inclinato fin dentro la fontana...». L’antipatia era rivolta a Van Eyck e all’Altare dell’Agnello mistico di Gand. Ma nel calderone della Keine Malerei cadevano nomi come Dürer, Holbein, van Eyck, Fouquet, Memling e molti altri francesi, fiamminghi, tedeschi: «tutt’assieme – nulla ». Amen.

Criticava, il giovane prodigio della critica d’arte (aveva all’epoca 24 anni e si era laureato nel 1911 con Piero Toesca con una tesi su Caravaggio), il realismo nordico in quanto esibizionismo tecnico – antilirico – che produce la resa mimetica della realtà, ma non è arte. L’estetica di Croce agiva. Anche se il rifiuto a pelle in Longhi non fu mai troppo raro – basta ricordare le stroncature di Tintoretto, Tiepolo, Canova –, dietro aveva certamente qualcosa di più specifico. Che cosa? Non trovando il libro sopra citato – che ha una introduzione di Cesare Garboli, l’interprete tuttora più acuto delle contraddizioni del critico di Alba –, mi sono rivolto alle tracce che se ne trovano online e ne ho riscontrate alcune in un articolo uscito su un quotidiano nel 1995 che anticipava parte del saggio di Garboli con un titolo che mi ha fatto sobbalzare sulla sedia dato il nostro tempo: Longhi e il virus Italia; ora, è noto come l’Italia sia il paese che dopo la Cina ha visto subito dilagare nel suo corpo il coronavirus, ma la realtà è che questa pandemia in un primo momento ha fatto pensare a molti di noi che l’Europa tema l’Italia come un virus endemico che non ha vaccino; un politico italiano qualche sera fa parlando dei nostri vicini nordici ha detto esasperato: «questi ci odiano ».

Io non so se sia poi così, ma rileggendo le pagine di Longhi attraverso il saggio scritto a quattro mani da Marco M. Mascolo e Francesco Torchiani, Roberto Longhi. Percorsi tra le due guerre (Officina libraria. Pagine 160. Euro 16,00), sono stato spinto a riflettere su alcune questioni che da tempo, almeno due decenni, mi confermano come sia urgente “rivedere Longhi” a partire dalle sue antipatie, per un’opera di manutenzione del mito non per demolirlo. E cominciare da Keine Malerei è un buon inizio.

Il libro di Mascolo e Torchiani è utile per la puntualità con cui riepiloga gli sbalzi intellettuali del grande critico: dal rapporto contrastante con l’estetica di Croce – seguita con riserve negli anni giovanili, con prese di distanza sulle astrazioni idealistiche, e poi il ritorno negli anni Quaranta su posizioni crociane utili a divincolarsi da quella fase torbida che lo vide collaboratore ministeriale di Bottai –, fino alle dimissioni dall’Università di Bologna, con l’avvento della Repubblica Sociale, ma prima con la celebre conferenza fiorentina del 1941 su Arte italiana e arte tedesca, dove le idiosincrasie giovanili, pur con riserve insuperate su Dürer, si sciolgono in una valutazione che si può riassumere nell’idea “distinguere per unire” (in senso non razzista e non nazionalista). L’universale nel particolare, insomma, oltre ogni regionalismo.

I due studiosi concludono il libro ritenendo che il tempo che separa quella conferenza – che non fu “un gesto di rottura” col fascismo – dalle dimissioni accademiche meno di due anni dopo, sia da rintracciarsi negli arresti in serie di colleghi e allievi come Arcangeli, Ragghianti, Gnudi, Bassani, Morandi e altri del milieu storico–artistico di quel tempo. Si trattava forse anche di lavare i propri panni sporchi? Longhi non fu mai un oppositore del fascismo: nel 1932 aveva avuto la tessera del partito senza la quale era difficile fare qualunque cosa in Italia e nel 1935 aveva giurato fedeltà al regime; “routine burocratica” che detta così fa rabbrividire, visto che il suo “compromesso” con la realtà politica non cadde nemmeno quando passarono le Leggi razziali del 1938, periodo in cui era a Roma a fianco di Bottai.

Ecco, io faccio fatica a essere comprensivo con Longhi, pur riconoscendogli la grandezza di critico e prosatore. Garboli riassume efficacemente la questione quando parla della sindrome che gli «restò appiccicata tutta la vita, come la forfora che sempre più gli brillava, col tempo, sulle giacche di cachemire blu», ovvero quel complesso di superiorità che si specchia poi in un complesso d’inferiorità ogni volta che fa le prove muscolari con qualcuno che ha individuato come suo pari, per l’attrazione fatale che mentre lo avvicina lo prepara anche a distruggere il mito. Molto italiano. E cosa poi non così rara per Longhi, anzi il riscontro si potrebbe trovare nel-l’artista che più lo ha legato a sé per la vita, Caravaggio, che fu sempre competitivo coi giganti del Rinascimento, da Raffaello a Michelangelo. Ma questa sindrome per Garboli diventa la “Longhi Keine Malerei”: «Avanguardista, futurista, idealista, attualista, nazionalista, antipassatista, vociano» che fa pendant con una «lingua capricciosa, fumistica, intraducibile, fatta per meravigliare, incantare, sedurre, fatta per esprimere più che per comunicare, e destinata solo ai compatrioti ». Recensendo nel 1998 la mostra di Michael Pacher a Bressanone m’era venuto da scrivere che quelli del giovane Longhi erano accessi d’istrionico sciovinismo.

Ma nonostante gli accessi–eccessi non si potrà negare il timbro unico della scrittura longhiana. Che cambia registro nel giudizio sulla pittura nordica solo dopo il viaggio europeo nel 1920– 21, come notano gli autori del libro, e accade perché in quel momento Longhi vede le opere dal vero mentre prima i giudizi tranchantpassavano perlopiù dalle fotografie. Su quel realismo, Longhi interviene sempre nel 1914 con una recensione uscita sulla “Voce” – poco citata dagli studiosi longhiani –, su Die italienische Schönheit di Arthur Moeller van den Bruck (un critico, sostenitore della rivoluzione conservatrice), di cui apprezza alcune intuizioni sullo stile ma che demolisce quando questi parla del realismo nordico sotto quel registro, poiché «nessuno potrà mai dimostrare come il Realismo nordico cioè il combacio col caos naturalistico possa aver a che fare con lo stile».

A questo proposito, benché esuli dal periodo storico preso in esame nel saggio di Mascolo e Torchiani, è utile ricordare che nel 1965 avvenne uno scambio di idee fra Longhi e l’artista Gabriele Mucchi che rimproverò al critico di aver usato in una conferenza su Caravaggio il termine “naturalista”: «Per me il realismo del Caravaggio è qualcosa di più del suo naturalismo». Longhi replicò: «Ho voluto rinverdire il termine usato nel Seicento per il Caravaggio e che significava sostanzialmente “realista”. Oggi v’è troppa paura (ed è antistorica) di assimilare i due termini come se fossero toto coelo inconciliabili. Ma anche le parole realtà e natura erano invece intercambiabili. L’unica parola da lasciar da parte è quella di “verismo” ». Su queste distinzioni resta ancora molto da scrivere rispetto al magistero longhiano, perché potrebbero diventare categorie attraverso cui seguire, per esempio, gli sviluppi critici che hanno segnato il corpo a corpo del critico con Caravaggio.

Per finire, voglio ricordare che Longhi dopo la laurea era a Roma e collaborava con Adolfo Venturi tenendo una rubrica bibliografica sulla rivista “L’Arte”. In quel periodo anche Aby Warburg era a Roma per parlare con Venturi dell’organizzazione del X Congresso internazionale di Storia del-l’arte che si sarebbe svolto nel 1912 a Palazzo Corsini sullo stesso tema che Longhi nel 1914 prenderà di petto: L’I-talia e l’arte straniera (essenzialmente quella Nord europea). Qui Warburg rese nota la celebre interpretazione zodiacale degli affreschi di Palazzo Schifanoia. All’epoca alcuni studiosi tedeschi vedevano nell’arte dell’Europa meridionale – come disse l’archeologo Julius Schübrin – una «coazione del sangue e dell’istinto». Recentemente Hans Belting ha scritto che nelle aspettative del governo prussiano in quel congresso si giocava la partita “Germania contro resto del mondo”. Longhi seguì certamente la discussione, ma ignoro se incontrasse Warburg (certo la relazione sugli affreschi Schifanoia, per quanto condotta su linee allegoriche e simboliche, dovette attirare la sua attenzione). La superiorità nordica che gli storici tedeschi esprimevano nelle loro relazioni, due anni dopo potrebbe aver soffiato sul fuoco della Keine Ma-lerei e sull’orgoglio longhiano. Ma quasi trent’anni dopo, stendendo il testo su Arte italiana e Arte tedesca, il critico forse volle regolare un po’ di conti con se stesso e con la storia europea fra le due guerre che, fino a quel momento, aveva lasciato in sospeso per poter condurre la sua opera di studioso e di conoscitore che, non dimentichiamolo, era anche la fonte per la sua sussistenza.

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