mercoledì 2 agosto 2017
Con i «Maestri cantori» che hanno aperto il Festival di Bayreuth in Germania la riconciliazione fra il compositore antisemita e il popolo dell'Alleanza grazie alla regia ebraica di Kosky
Il 1° atto dei «Maestri cantori di Norimberga» al Festival wagneriano di Bayreuth (Bayreuther Festspiele/Nawrath)

Il 1° atto dei «Maestri cantori di Norimberga» al Festival wagneriano di Bayreuth (Bayreuther Festspiele/Nawrath)

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Va in scena sul palcoscenico del Festival wagneriano di Bayreuth la riconciliazione fra l’antisemita Richard Wagner e il popolo dell’Alleanza. A sancire la pace la pronipote del genio romantico, Katharina, e il regista australiano d’origine ebraica Barrie Kosky chiamato dagli eredi del compositore, che da sempre hanno in mano le redini della rassegna fondata da Wagner in persona nel 1876, ad allestire l’opera di apertura dell’edizione 2017: I maestri cantori di Norimberga. «Wagner ha detto e scritto cose terribili sugli ebrei. Ma non ha colpe per quanto accaduto nel Terzo Reich. Ed è uno dei più grandi artisti di tutti i tempi», aveva spiegato alla vigilia il primo regista ebraico nella storia di Bayreuth, lasciando intendere ciò che lo avrebbe ispirato. Detto, fatto. Sulla collina verde della cittadina tedesca l’anticonformista direttore della Komische Oper di Berlino processa Wagner nel teatro fatto costruire dallo stesso maestro – tramutando la scena anche nell’aula del tribunale di Norimberga –, ne denuncia le concezioni antisemite – basta leggere il pamphlet Il giudaismo nella musica –, accenna all’appropriazione nazista delle sue partiture – facendo intuire le simpatie della famiglia Wagner per Hitler – ma alla fine assolve il cantore di Sigfrido. O meglio, assolve la sua musica. Com’era prevedibile.


Mentre cala il sipario della “prima”, applaude Angela Merkel insieme con la coppia reale di Svezia, ospite d’onore della serata (che in realtà inizia alle quattro del pomeriggio e finisce alle dieci e mezzo di sera). Però quando il regista compare di fronte al pubblico non mancano i «buu». Allora viene da chiedersi: forse la Germania fatica ancora a rapportarsi con il suo passato, se è vero che la stampa tedesca denuncia in questi giorni rigurgiti antisemiti nel Paese? Più probabilmente – per essere benigni – i dissensi degli spettatori sono figli di un allestimento che ha alcune idee di fondo ma a conti fatti risulta più noioso che interessante. Kosky fa dei Maestri cantori una commedia, così come l’aveva pensata il suo autore. E i personaggi diventano quelli che formavano il clan Wagner. Il compositore è al tempo stesso Hans Sachs, il poeta ciabattino che celebra la «sacra arte tedesca» ma sa intuire la portata delle novità musicali, e poi il giovane Walther von Stolzing, il girovago innamorato di Eva che propone un’arte rivoluzionaria oltre le regole del tempo. Eva ha il volto di Cosima, moglie di Wagner e figlia di Franz Liszt che assume le sembianze di Pogner (padre di Eva). E poi c’è Sixtus Beckmesser, il cantore fustigatore e fustigato, destinato a finire alla berlina. Kosky accetta la controversa lettura del filosofo Theodor Adorno sugli sconfitti delle saghe wagneriane: da Mime, il nano della Tetralogia, a Klingsor, il mago di Parsifal, sono tutte macchiette ebraiche. Compreso Beckmesser. Che il regista vuole ebreo, appunto: anzi, l’ebreo più caro a Wagner, Hermann Levi, il direttore d’orchestra che guidò la prima di Parsifal nel 1882 a Bayreuth. E Kosky lo presenta succube di Sachs-Wagner, anche in questo caso affidandosi a un orientamento discutibile, fino a farne una caricatura con kippah e trecce, così come imponeva la satira nazista.


Si ride nel primo atto: il migliore di tutto l’allestimento. È ambientato a Villa Wahnfried, la lussuosa casa di Wagner a Bayreuth. E alla mente viene Damiano Michieletto che aveva trasportato Falstaff in Casa Verdi, il complesso di Milano che accoglie gli artisti in pensione. Il regista australiano esalta le manie di Richard: dal suo amore per i cani (sul palco due Terranova) alla passione per profumi e sete. I maestri cantori spuntano fuori dal pianoforte. E, per inchinarsi al politicamente corretto, uno è omosessuale. L’atto si chiude con la Villa – in cui a più riprese è stato accolto il Führer – che lascia il posto al tribunale sui crimini di guerra. Ed è qui che si svolgono gli altri due atti. Entrambi statici e monotoni, tanto da far risultare soporifera persino una delle scene più esilaranti dell’opera: la serenata di Beckmesser disturbata da Sachs. Solo nel finale un sussulto: l’aula di Norimberga viene sostituita da un’orchestra e da un coro e il banco dell’imputato Sachs-Wagner si innalza a podio da cui il maestro dirige la sua musica.


Ciò che si ascolta convince di più. Il baritono Michael Volle è oggi Sachs per eccellenza: con una forza inesauribile e un’incredibile raffinatezza nei lunghi monologhi, regala un’interpretazione nel segno dell’autorevolezza. Il Beckmesser di Johannes Martin Kränzle stupisce per i suoi tratti drammatici che ben si legano alla visione del regista. Il tenore beniamino della Germania, Klaus Florian Vogt, colpisce per l’agilità con cui si approccia a Walther e ammalia il pubblico. Günther Groissböck è un Pogner dalla dirompente forza vocale, mentre un autentico attore “lirico” si rivela Daniel Behle nei panni di David, l’eterno apprendista, che diverte e appassiona nonostante qualche lieve errore dovuto alla tensione. Wiebke Lehmkuhl esalta il ruolo della nutrice Magdalena con il suo timbro cristallino. Due però le pecche: Anne Schwanewilms (Eva) e la direzione del franco-svizzero Philippe Jordan. Il soprano appare acerbo, non trasmette emozioni, è talvolta in difficoltà. Fischi per lei. E anche per il direttore dell’Opéra de Paris che già lo scorso anno aveva proposto nella capitale francese I maestri cantori. Nella città della Baviera sceglie l’equilibrio come suo marchio distintivo e a lui va riconosciuto il merito di aver preparato l’orchestra fin nei dettagli. Sono i momenti malinconici quelli di maggior impatto. E va elogiata l’intensa impostazione che dà al quintetto del terzo atto, uno dei passaggi più sublimi in oltre cinque ore di musica. Però la tendenza ad “arginare” fa scivolare in secondo piano la monumentalità e la solennità della partitura. Troppo poco wagneriano il suo piglio.


Ecco quindi che per immergersi in una direzione secondo lo stile di Bayreuth occorre sentire Parsifal, altro titolo con l’intero ciclo della Tetralogia e Tristano e Isotta nel cartellone del Festival che prosegue fino al 28 agosto. Nel golfo mistico Hartmut Haenchen, ribattezzato il direttore “tappabuchi” perché lo scorso anno aveva sostituito all’ultimo tuffo Andris Nelsons – dopo il suo forfait – salvando la prima di Parsifal. Trionfo nel 2016. E trionfo anche adesso per una bacchetta che a 74 anni trova la sua gloria a Bayreuth e che dà all’ultimo capolavoro di Wagner una vibrante tensione. Persino la regia di Uwe Eric Laufenberg – con l’omaggio ai cristiani perseguitati – è ben più scenografica e coinvolgente di quella dei Maestri cantori. Spiccano nel cast Georg Zeppenfeld (Gurnemanz), il migliore basso wagneriano del momento, Elena Pankratova che in Kundry unisce sensualità e rimorso, Derek Welton che in Klingsor dà corpo all’inganno e alla vergogna. Applausi per Andreas Schager, al suo debutto sulla collina verde nel ruolo del “puro folle”, che però si lascia prendere dalla foga e non riesce a modulare a dovere la sua potenza vocale. Parsifal batte i Maestri cantori due a uno.


Giuseppe Verdi conquista il teatro del «rivale». E Alagna sarà Lohengrin (senza Anna Netrebko)


Parla italiano il Festival wagneriano di Bayreuth. Quest’anno grazie a Giuseppe Verdi. Il prossimo anno con la voce di Roberto Alagna. Un omaggio al Belpaese? Più che altro una fortunata serie di coincidenze nel segno della Penisola. Del resto Richard Wagner amava l’approccio italiano al canto benché la moglie Cosima, prima custode della rassegna dopo la morte del compositore, non lo gradisse affatto. Fatto sta che per una dozzina di mesi l’Italia sarà ospite nella cittadina della Baviera dove il genio romantico non è né nato né morto ma dove ha fatto costruire il teatro a misura delle sue partiture che dal 1876 accoglie il Festival da lui stesso fondato. E adesso per merito della pronipote del maestro, Katharina, al timone della kermesse, ecco arrivare un tocco nostrano.


Ad aprire la strada è stato il “cigno di Busseto” entrato nel teatro di Wagner – riservato solo alle sue opere più riuscite – per il concerto in occasione dei cento anni dalla nascita di Wieland Wagner (1917-1966), nipote dell'irrequieta penna tedesca e “rivoluzionario” regista d’opera sia a Bayreuth – dove è stato direttore – sia nel mondo. Fra i pochissimi titoli italiani che ha messo in scena c’è l'Otello di Verdi. E allora il capolavoro ispirato a Shakespeare è stato inserito nel programma della serata di gala alla vigilia dell’apertura del Festival 2017, lo scorso 24 luglio. Ai “pellegrini” di Bayreuth è stata regalata la preghiera di Desdemona che precede la sua morte. A interpretare la moglie del generale Camilla Nylund, impegnata come Siglinde nella rassegna, e a indossare i panni di Otello Stephen Gould, il Tristano di quest’anno. Il risultato? Sia per la vibrante esecuzione dell’orchestra del Festival diretta da Hartmut Haenchen, sia per i solisti wagneriani “prestati” a Verdi, ne è uscito fuori un Otello da brividi. Tanto da domandarsi: ma bisogna andare a Bayreuth per sentire un grande Verdi?


Nel 2018 sarà protagonista Roberto Alagna. Il tenore italo-francese (che è nato in Francia da emigranti siciliani ma ha la cittadinanza italiana) interpreterà Lohengrin nella nuova produzione del prossimo anno. «Per lui sarà un doppio debutto – ha annunciato Katharina Wagner –: a Bayreuth e in questo ruolo». A dirigerlo una delle migliori bacchette wagneriane contemporanee: Christian Thielemann. Al suo fianco non avrà Anna Netrebko, come per due anni è stato ipotizzato, ma Anja Harteros che sarà Elsa. Tornerà sul palcoscenico anche la storica soprano – molto amata dai cultori del genio tedesco – Waltraud Meier che sarà Ortrude. La regia è affidata allo statunitense con radici israeliane Yuval Sharon.


Come se non bastasse il tenore spagnolo Plácido Domingo, oggi 75enne, tornerà nel 2018 al Festival di Bayreuth. Stavolta come direttore d’orchestra. Infatti salirà sul podio per guidare Valchiria, una delle quattro opere che compongono la Tetralogia e che il prossimo anno sarà proposta in modo autonomo. Domingo sarà di nuovo nella cittadina della Baviera dopo 18 anni di assenza e parteciperà di nuovo alla rassegna che finora lo aveva visto come solista in Parsifal e Valchiria.



E i ragazzi strappano il «bis» in Tannhäuser


Non voleva applausi Wagner durante le sue opere. E tanto meno i bis. A strapparne uno ci sono voluti i baby spettatori di Tannhäuser per ragazzi, la versione ridotta di un’opera del genio di Lipsia che ogni anno il Festival di Bayreuth realizza per avvicinare i bambini ai capolavori del compositore. Ecco, al termine di Tannhäuser – durato poco più di un’ora a fronte delle oltre tre dell’originale – i ragazzi hanno iniziato a urlare: «Ancora, ancora». Imbarazzo dei cantanti (tutti impegnati nei titoli della rassegna) e anche dell’orchestra. Finché è balenata l’idea di cantare il celebre “coro dei pellegrini” proposto nello spettacolo solo in forma strumentale. Nell’allestimento per i piccoli, il tormentato cantore è un ragazzo diviso fra il suo gruppo di amici (con l’innamorata Elisabeth) e la “ragazzaccia” Venere che vive in un tunnel proibito. Non c’è il Papa che nega il perdono a «Tanni» (come lui scrive sui muri), ma il padre di Elisabeth che non lo accetta. E la preghiera della giovane alla Madonna diventa quella alla madre. Lieto fine con l’abbraccio fra Tannhäuser ed Elisabeth (senza che i due protagonisti muoiano come nel dramma di Wagner).




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