mercoledì 16 gennaio 2019
Al Teatro del Maggio Musicale l'opera diretta da Luisi. Tutto esaurito e applausi del pubblico. Ma le sviste (nel cast e nella direzione) non mancano. Però c'è il coraggio di proporre un capolavoro
Il primo atto dell'"Olandese volante" al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino (foto Teatro del Maggio)

Il primo atto dell'"Olandese volante" al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino (foto Teatro del Maggio)

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Per una settimana Firenze diventa la Bayreuth italiana. Con i devoti di Richard Wagner in pellegrinaggio lungo le rive dell’Arno. Perché il nuovo Teatro del Maggio Musicale Fiorentino (come adesso si chiama dopo la parentesi in cui era stato ribattezzato Opera di Firenze) è uno dei pochissimi della Penisola che ha l’ardire – o meglio il coraggio – di prevedere nel cartellone 2019 un titolo del cantore di Sigfrido e Brunilde. E così fino a domani, giovedì 17 gennaio, va in scena L’olandese volante (“Der fliegende Hollander”) nella nuova produzione che vede sul podio Fabio Luisi, direttore musicale del Maggio dallo scorso aprile, al suo debutto wagneriano in Italia ma non all’estero (basti citare Sigfrido e Il crepuscolo degli dei al Metropolitan di New York). Posti esauriti o quasi nelle quattro repliche. Ed è un segnale più che positivo per il maggior teatro lirico toscano alle prese con un percorso di rinascita (di redenzione, verrebbe da dire pensando al genio romantico) dopo anni di crisi.

Se l’audacia c’è tutta, il risultato non può essere certo paragonato a quello sulla collina verde di Bayreuth. E non c’è da pretenderlo. Tanto che alla fine il pubblico applaude senza riserve. Persino il nuovo allestimento firmato dal regista scozzese Paul Curran, fin troppo ordinario. Con il primo atto immerso in un videogame fra immagini proiettate di onde e vascelli; il secondo in una sartoria di metà Novecento con una ventina di storiche macchine da cucire Singer in scena; l’ultimo con una casupola da fiordo norvegese. Con i movimenti degli interpreti ridotti all’osso. E nulla emerge dell’idea annunciata da Curran di volere una Senta «antesignana del femminismo», che si scaglia contro tutto e tutti per donarsi al misterioso navigante condannato a vagare in eterno finché una donna non gli giuri amore fedele e disinteressato. A parte i due spintoni sferrati all’innamorato Erik, lei è una donna senza particolare carisma. E persino la morte in mare per il suo Olandese fa venire in mente Tosca che si getta da Castel Sant’Angelo piuttosto che la redenzione d’amore concepita dall’irrequieta penna tedesca.

Ciò che si sente non ha molto di wagneriano. A cominciare dall’approccio di Luisi. Discontinuo, lento anche se condito da improvvise accelerazioni, privo di contrasti (a parte le impennate di volume, talora eccessive come quelle nella festa dei marinai). E soprattutto con ripetute sfasature fra orchestra e palcoscenico. A farne le spese anche il coro, miglior “elemento” dello spettacolo. La Senta di Marjorie Owens non emoziona; il Daland di Michail Petrenko è corretto; l’Erik di Bernhard Berchtold è ben interpretato seppur privo di massa vocale. Sforzo titanico per Thomas Gazheli (l’Olandese) che ha un buon timbro ma non la caratura per una parte del genere. Se fossimo nei Maestri cantori la lavagna del fustigatore Beckmesser sarebbe piena di segni, al termine delle due ore e mezzo d’opera in terra toscana divise da un intervallo. Ma proprio come avviene nel capolavoro che ha come sfondo Norimberga, è l’arte “nuova” di Wagner che assolve tutto, a prescindere da sbavature e giudizi personali. Anche a Firenze.

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