venerdì 5 luglio 2013
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Uno no Zelig dell’illuminismo. A Voltaire si attaglia perfettamente la definizione che ne dà Antonio Gurrardo, studioso della filosofia del Settecento, nel suo gustosissimo Voltaire cattolico (Lindau, pp. 188, euro 17), appena uscito in libreria. Il titolo, accattivante come un ossimoro, indica prima di tutto la capacità mimetica dell’intellettuale più famoso dell’ultima stagione della Francia monarchica. Di cultura tanto vasta quanto approssimativa nei singoli ambiti (scudisciato per questo da Giuseppe Baretti su “La Frusta Letteraria”), battutista brillante e facondo come pochi, Voltaire ha lasciato un’enorme mole di scritti. Il nudo elenco dei titoli, in un’edizione ottocentesca e incompleta della sua opera omnia, occupa venti pagine, a cui vanno aggiunte oltre 15mila lettere, solo fra quelle pervenuteci. Nella sua rete sterminata di relazioni, Voltaire non disdegnava, anzi, di entrare in contatto con personalità della cultura cattolica italiana, ecclesiastici in primis: dal gesuita astronomo Giuseppe Ruggero Boscovich, al camaldolese scrittore Angelo Calogerà, al cardinale bibliofilo Angelo Maria Querini. A tutti lisciava il pelo, con tutti magnificava la patria delle belle lettere che avrebbe tanto voluto visitare – salvo poi parlarne in Francia come il "Paese della superstizione" – ma in cui, in 84 anni di vita, non ebbe mai intenzione di mettere piede. L’alfiere dei Lumi era ancor più un cacciatore instancabile di riconoscimenti accademici e in tal senso il prestigio della terra dei Papi era ancora alto in Europa. Arrivò così a scrivere un saggio di geologia in italiano – per essere certo che venisse letto e circolasse – nel quale sosteneva l’assoluta immutabilità della crosta terrestre nel corso dei millenni, «eccetto li cento cinquanta giorni del diluvio», con i fossili che sarebbero stati lische di pesci portati sui monti e mangiati sui monti dai nobili locali. In breve, nota Gurrado, Voltaire «era pronto ad abbracciare con fin troppo entusiasmo le tesi tradizionaliste per le quali supponeva che Oltralpe ci fosse terreno fertile». Camaleontismo e notevole pelo sullo stomaco. La sua tragedia del 1742 Le fanatisme, ou Mahomet le prophète era stata censurata perché dietro alla vituperata figura di Maometto s’intravedeva fin troppo bene l’altro obiettivo della sua prosa corrosiva, Gesù e il cristianesimo. Attaccato per questo dai giansenisti – che erano in rotta con il papato dopo la bolla Unigenitus di Clemente XI, del 1713, che li aveva censurati – Voltaire pensò bene di giocare di sponda e di cercare l’avallo niente meno che di Benedetto XIV. Per ottenere una lettera di encomio per il suo Mahomet inviò però al Papa un altro testo, il Poème de Fontenoy, in cui celebrava la vittoria della Francia cattolica sulle potenze protestanti. Gli bastò poi esibire pubblicamente la missiva tanto autorevole cambiando il nome dell’opera che veniva lodata... Che in Voltaire il rapporto col cattolicesimo fosse guidato da motivazioni tattiche più che da granitiche posizioni di principio, lo dimostra anche la cronologia del suo furore antiromano: questo aumentò, dopo anni di entente cordiale con la Roma amica della Francia, di pari passo con il degenerare dei rapporti fra la corte francese e la curia vaticana, soprattutto tra il 1758 e il 1769. Nondimeno, nello stesso periodo, Voltaire fece erigere nella sua tenuta di Ferney una grande chiesa, con tanto di reliquia di san Francesco impetrata a Clemente XIII. Sul frontone pose in grande evidenza la scritta: «Deo erexit Voltaire», dove, andando a capo "Voltaire" dopo "erexit", la parola più significativa risultava non "Deo", ma il nome del proprietario del sacro edificio. Anche la tattica, quindi, soccombeva di fronte allo smisurato egocentrismo. A far piazza pulita di entrambi ci pensarono i rivoluzionari, che nel 1793 saccheggiarono le chiesa e fecero scomparire il motto surreale all’entrata. Ma per Gurrado Voltaire fu «cattolico» anche in un senso più sottile e nascosto: le sue capacità intellettuali furono un tipico prodotto delle efficacissime scuole gesuitiche del tempo. I suoi riferimenti culturali e persino il suo lessico rimasero fino all’ultimo segnati da questa impronta primigenia. Voltaire fu insomma un cinico e roboante intellettuale libertino che, come tanti figli ribelli, non riuscì mai ad affrancarsi del tutto dalla sua madre/matrigna. E forse mai lo volle.
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