domenica 19 febbraio 2017
Per la prima volta raccolte in volume 12 brevi storie dello scrittore urbinate, morto nel 1994. L'utopia, il valore della scienza e del progresso, la lotta alla disuguaglianza sociale.
Paolo Volponi (1924-1994) fu anche senatore per Rifondazione comunista.

Paolo Volponi (1924-1994) fu anche senatore per Rifondazione comunista.

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Intanto alcune informazioni di servizio per meglio leggere I racconti di Paolo Volponi ora in libreria (Einaudi, pp. 118, euro 17,50), curati da uno specialista di grande affidabilità e sicura intelligenza critica come Emanuele Zinato. Si tratta, infatti, della prima e completa silloge dello scrittore urbinate, il quale non ha mai raccolto i suoi racconti in volume, seppure ne abbia sempre scritti, a partire dai tre giovanilissimi composti negli anni Quaranta («Per me è l’angolo più tranquillo», «Piragna », «Novembre è il mese…») e creduti perduti, che la figlia Caterina ha ritrovato fra pagelle e diplomi scolastici paterni, per arrivare agli ultimi, «Nerone» e «Talete», che sono del 1987.

E poi: non sarà difficile, al lettore che già conosce questo realista visionario di sorprendenti concrezioni linguistiche, trovare in molti di questi testi un preambolo o un omologo di certe sue invenzioni romanzesche, rilucenti sempre, però, d’una loro autonomia estetica, senza conservare quei limiti che sono propri dei cartoni preparatori. Come non pensare a La macchina mondiale (1965), quando s’incontra il precocissimo inventore del coevo «Annibale Rama», il quale progetta un calcolatore senza eguali, che però viene rifiutato dall’azienda, col risultato che Annibale, costretto alle dimissioni, realizzato di nascosto il suo progetto, riuscirà ad accumulare una somma di danaro così esagerata, da poter pensare a una più ardita impresa elettronica, in vista d’una più generale emancipazione sociale. Senza parlare di «Iride», l’operaia autodidatta che ama Gramsci e che dà il titolo alle pagine del 1985, la quale anticipa quel-l’altra figura di resistente che è l’Antonino Tecraso di Le mosche del capitale (1989). Non posso tacere poi di «Talete», il protofilosofo che, in un mondo di cannibali, è concentrato a divorare se stesso, il quale, per la forza orrifica dell’invenzione, rimanda senz’altro a certe pagine del Pianeta irritabile (1978). Di queste e di altre convergenze scrive Zinato nella Prefazione, ove ci dice anche che i dodici racconti qui riuniti nascono nel modo più diverso: come «riscritture di fiabe» («Un re cieco», «Tordo balordo»); come sceneggiature abortite (il citato «Annibale Rama »); come «schegge destinate in un primo tempo a diventare parti di romanzi» («La fonte», «Una suora», la stessa «Iride»).

Una menzione a parte merita senz’altro quello che il critico considera, a ragione, «il più originale », e cioè il non poco longhiano «Accingersi all’impresa» (1967), in cui si racconta d’un antiquario e collezionista compulsivo che abbandonerà la moglie per andare alla ricerca delle preziosissime lastre originali intagliate nel rame da Giambattista Brustolon nel 1766 per il grande pittore veneziano Canaletto. Inutile dire che un libro siffatto contribuisce a variegare ulteriormente l’immagine d’uno scrittore di già cangiantissime policromie e multiforme disposizione, sempre fedele al vagheggiamento di quel 'non-ancoraesistente', a quella progettualità utopica, che Zinato registra tanto sul piano dei significati, che su quello, ancora più interessante, dei significanti. Sono convinto che, per capire al meglio che scrittore sia Volponi, nato a Urbino nel 1924, possa essere utile comparare la sua vicenda con quella di due coetanei, entrambi ritenuti assai più importanti e significativi di lui, spesso agitati da schieramenti contrapposti l’un contro l’altro, come le bandiere d’una certa idea di letteratura: intendo Pasolini (1922) e Calvino (1923). Se lo collocassimo su un ideale asse ai cui estremi siano, appunto, i due citati, Volponi si troverebbe proprio sulla mediana, nel punto di esatta equidistanza da entrambi.

Il rapporto con Calvino è di più facile definizione, se è vero che si tratta di scrittori che considerano la scienza come valore, mentre assumono la modernizzazione quale occasione non eludibile di progresso. Se, però, Volponi lavora con lucidità ostinata sulle opposizioni reali della società capitalistica, nella convinzione che, della tecnologia, sia stato fatto un uso iniquo e antidemocratico, di classe insomma, Calvino quelle opposizioni pare spesso eluderle, in vista d’una conciliazione formale, poco importa se elegantissima, di geometrica e glaciale razionalità. Più complicato il rapporto con Pasolini che, pure, come Volponi conosce la torsione espressionistica: basterebbe qui citare l’atteggiamento di incomprensione che ebbe nei confronti di Corporale (1974), come documentano l’epistolario e la stroncatura del friulano apparsa su Tempo illustrato nello stesso anno, proprio quando Pasolini, il «maestro e amico» Pasolini, stava scrivendo quel capolavoro che è Petrolio. Dico Petrolio: che, quanto a destrutturazione dell’io, oltranze biologiche e pulsioni autodistruttive, ha proprio in Corporale l’opera più prossima che si potrebbe citare tra le coeve, in vista di quell’oltreromanzo – non saprei come altro definirlo – che Pasolini stava inseguendo, quando quella tragica morte l’ha raggiunto.

Di certo, a Volponi mancava il populismo, la retorica creaturale, l’ideologia dolorista, la sindrome da capro espiatorio che, già nel ’60, faceva dire a Pasolini: «Non c’è stata una sola parola che io abbia scritta o detta che non sia stata fraintesa». Volponi aveva cominciato con un romanzo magnificamente italiano, scritto prima di Memoriale (1962) ma pubblicato nel 1991: La strada per Roma, prendendo le mosse dall’amata Urbino, per complicarsi dentro sempre più disperate allegorie, sino a Le mosche del capitale, che sancisce il fallimento definitivo d’ogni utopia razionale. Si direbbe quasi che la presupposizione d’un mondo provinciale e pre-capitalistico, nella sua appagata atemporalità, ci faccia sentire in modo ancora più lancinante le scissioni della modernità pur anelata. Per raccontarla, Volponi ha assecondato la deflagrazione psichica dei suoi personaggi, approntandone, con miracolosa funzionalità, l’unica lingua possibile.


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