venerdì 19 ottobre 2018
Protagonista del calcio italiano, prima da giocatore e poi soprattutto da medico, oggi è responsabile del settore sanitario all’Inter. «Il doping? I controlli sono aumentati, ma bisogna fare di più»
Il dottor Piero Volpi, 66 anni, responsabile del settore medico dell'Inter

Il dottor Piero Volpi, 66 anni, responsabile del settore medico dell'Inter

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Dici “medico sportivo”, e se hai girato un po’ gli stadi e ti sei affacciato agli spogliatoi negli ultimi venticinque anni, allora non puoi che pensare al dottor Piero Volpi. Un raro esempio di “medico-calciatore” (l’altro è Lamberto Boranga), milanese, classe 1952, ruolo in campo: libero. Inizi nella Ignis Varese, poi Casertana, Lecco, la Ternana di cui diventa il “capitano”. L’apice lo raggiunge nel Como, stagione 1979-’80, quella in cui contribuisce alla promozione dei lariani in Serie A. Nel frattempo la laurea in Medicina all’Università di Perugia e poi quella specializzazione in Chirurgia ortopedica che oggi ne fanno il Responsabile del reparto del ginocchio e traumatologia dello Sport all’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (Milano). Dal 1995, in piena era Moratti, la sua seconda casa è diventata la Pinetina, la tana della beneamata Inter dove dopo i vari passaggi di proprietà del club nerazzurro è tornato in qualità di attuale Responsabile del settore medico. È da lì, da Appiano Gentile che comincia la nostra conversazione, alla luce di Medico del calcio, l’enciclopedico manuale che il dottor Volpi ha appena pubblicato con la collaborazione di tutti i maggiori esperti in materia di Medicina dello Sport.

Grazie alla “battaglia” del dottor Ugo Cassinis, la figura del medico sportivo da noi fu riconosciuta già novant’anni fa. Poi nel 1957, a Milano, il professor Rodolfo Margaria fondò la prima scuola Universitaria - al mondo - di Specializzazione in Medicina dello Sport. Insomma siamo stati i primi e siamo ancora i migliori?

«Assegnarci il titolo o la medaglia di migliore medicina sportiva nel mondo vorrebbe dire non tenere conto del grande progresso tecnologico che c’è stato negli ultimi decenni in Europa e non solo. Lo standard dei Paesi a noi culturalmente più affini, anche da un punto di vista scientifico (Inghilterra, Francia, Germania, ma anche gli Stati Uniti) è su livelli medio alti, sia dal punto di vista delle tecniche adottate, sia per la particolare cura e attenzione rivolta agli atleti, a cominciare dai certificati di idoneità sportiva».

Tema questo della “certificazione di idoneità” che ha suscitato forti polemiche a causa delle varie zone d’ombra che ancora si riscontrano nel nostro Paese…

«Il modello italiano viene adottato e preso in considerazione un po’ ovunque, ma in Europa in fatto di certificazione di idoneità assistiamo un po’ allo stesso fenomeno a macchia di leopardo della Var (la moviola in campo), non tutti si sono adeguati all’innovazione. E questo purtroppo accade anche nella Medicina dello Sport. Così come capita ancora che non ci sia un andamento uniforme, da Trento a Trapani, in merito al rilascio dell’idoneità sportiva. Pertanto si registrano ancora casi di evasione delle visite o di controlli medici scaduti che però consentono all’atleta di svolgere lo stesso regolare attività agonistica, a suo rischio e pericolo. Per fortuna stiamo parlando di “negatività” che rientrano nell’eccezione, e nell’ambito ovviamente del mondo dilettantistico perché più si sale di categoria e inferiore sarà il riscontro di queste imbarazzanti anomalie».

Evasione dei certificati o certificati scaduti portano spesso alle morti improvvise in campo…

«Anche qui parliamo di eccezioni, mentre sono assai più diffusi i casi di infortunistica in campo che poi non vengono coperti dalle assicurazioni, le quali non rispondono del danno fisico per “mancata visita” di idoneità medico sportiva».

Il numero di infortuni nel calcio è sempre in aumento?

«Le statistiche stagionali indicano che il dato se non è aumentato si è stabilizzato verso l’alto e i fattori di rischio sono inalterati in quasi tutti gli sport. Nel calcio attuale il giocare sette giorni su sette, senza sosta, certo non aiuta ad abbassare il numero degli infortuni. C’è una “ratio” che è specchio della problematica: più giochi, meno ti alleni, più sei a rischio di traumi e stop fisici. I calciatori lo sanno, tutti gli addetti ai lavori idem, ma i calendari e gli impegni aumentano e questo sistema pare inarrestabile. Noi come medici sportivi possiamo solo continuare a progredire con la ricerca e affinando le tecniche della scienza del “RTP”, il Return To Play, il ritorno, dopo l’infortunio, allo sport giocato nel minor tempo possibile».

Dottor Volpi, ma lo sport professionistico

«La risposta secca e sincera? Sì. Ma perché entra in gioco il fattore “esasperazione” che conduce l’atleta a tendere verso il massimo obiettivo e quindi per raggiungerlo espone il suo corpo a un lavoro fisico che spesso supera i limiti consentiti. Faccio un esempio, un atleta come la sciatrice Sofia Goggia che ammiro tantissimo, ha rotto tre volte i crociati del ginocchio pur di arrivare a vincere l’ultima Olimpiade di discesa libera. Trent’anni fa era impensabile riuscire a tornare al top dopo tre operazioni chirurgiche del genere, oggi le statistiche ci dicono che 9 atleti su 10 possono farcela a reinserirsi ai massimi livelli anche dopo aver subito infortuni gravi».

Nel 2000 il calcio scopriva il doping “virale” (13 casi di Nandrolone nella massima serie). Dal 2003 a oggi quasi il “nulla”. Forse il doping è scomparso dai campi di pallone?

«Il calciatore, le società, hanno sicuramente capito che doparsi è un’azione molto improbabile da portare a buon fine senza essere scoperti dagli organi competenti. I controlli antidoping posso assicurare che si sono fatti più assidui, capillari, vengono effettuati anche fuori dalle competizioni, tipo alle 7 del mattino mentre il calciatore è a casa in vacanza con la famiglia. E poi è cresciuta nell’atleta la consapevolezza individuale del rispetto delle regole e sa che infrangerle, specie sul fronte doping, può minare la sua salute e il suo futuro professionale».

Dinanzi alle patologie cardiache sempre più frequenti tra gli sportivi e anche i casi di “morte improvvisa” come quella del capitano della Fiorentina Davide Astori come dobbiamo regolarci?

«Nel caso di Astori dobbiamo prendere atto che pur essendo un protagonista del calcio di primo livello serve ancora qualcosa in più a garanzia della salute del professionista. Magari ai controlli cardiovascolari annuali passare a quelli semestrali o trimestrali. Insomma, la morte di Astori ci ha detto che nel calcio di massima serie, in ambito di prevenzione e controllo medico si è fatto molto ma serve ancora qualcosa di più. Così come è necessario monitorare le nuove forme di cardiopatia che possono contrarre gli atleti dei settori giovanili, magari anche in conseguenza di banali influenze. Ecco che, nel mondo dello sport ancor prima che in ambito sociale, nasce l’esigenza di puntare su una maggiore diffusione delle vaccinazioni che rappresentano un primo muro per arginare queste nuove patologie cardiologiche».

La sua lunga carriera di medico sportivo è legata anche al “caso Ronaldo”, il Fenomeno brasiliano dell’Inter morattiana, un fuoriclasse minato dai tanti infortuni. L’attuale medicina sportiva in quel caso quanto avrebbe potuto allungare la sua carriera?

«Ronaldo ha avuto la sua buona dose di sfortuna quanto a incidenti, al tempo stesso dico che poteva gestirsi molto meglio come stile di vita. Possedeva doti naturali incredibili e spesso si basava troppo esclusivamente su quello. La chirurgia ortopedica attuale poteva sicuramente aiutarlo a recuperare più in fretta e a farlo restare più a lungo in campo ad alti livelli…».

Chi molla prima del tempo o non è in piena sintonia durante l’esercizio della sua attività di calciatore professionista abbiamo visto che spesso va incontro al “male oscuro”, la depressione. È successo anche a tanti campioni, a cominciare da Gigi Buffon.

«Vero, e per evitarlo bisogna educare i ragazzi fin da piccoli: fargli capire che il calcio è uno sport importante ma prima di tutto deve essere un divertimento che va affiancato a tutta una serie di attività parallele, in primis lo studio. Ai miei tempi il “dopo carriera” era un concetto vivo e peculiare anche dell’Aic, oggi spesso genitori e dirigenti nascondono ai ragazzi un dato inequivocabile: solo 1 su 40mila arriva a giocare in Serie A. Quindi ai 39.999 dico: createvi qualcosa d’altro oltre il campo, perché quando il gioco finisce c’è una vita da affrontare, e quella è la sfida più importante per ognuno di noi».

Per il “medico del calcio”, esiste l’ “atleta perfetto”?

«Maurito Icardi e Cristiano Ronaldo rappresentano due modelli di “atleti perfetti”. Un tempo l’attrezzo primario nel calcio era il pallone. Gianni Rivera o Roberto Baggio hanno fondato la loro eccellenza sulla tecnica, oggi quella non basta più. Il principale strumento di lavoro del calciatore moderno è il proprio corpo che va allenato e curato costantemente. Se poi alla straordinaria preparazione fisica e atletica aggiungi anche ottime doti tecniche, ecco che ci troviamo di fronte all’atleta perfetto, al fuoriclasse esemplare che Icardi e Ronaldo incarnano alla perfezione».

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