venerdì 18 agosto 2017
Grazie alla tecnologia l’ascolto è diventato una forma di lettura. Nel frattempo, però, sempre più spesso a raccontarsi in prima persona sono volumi e biblioteche
"Il libro parlante", illustrazione di Robida per “La fine dei libri” di Uzanne (1895)

"Il libro parlante", illustrazione di Robida per “La fine dei libri” di Uzanne (1895)

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Il poeta Dylan Thomas leggeva benissimo ad alta voce. I versi propri, ma anche quelli degli altri. La sua abilità, temprata ai microfoni della Bbc in Gran Bretagna, fu particolarmente apprezzata negli Usa ed è, in un certo senso, all’origine dell’audiolibro moderno. Questa, almeno, è la ricostruzione proposta dal critico letterario Matthew Rubery nel corposo e informatissimo The Untold Story of the Talking Book (“La storia mai raccontata del libro parlante”, Harvard University Press, pagine 372, dollari 29,95), un saggio che, tra una curiosità erudita e l’altra, torna a sollevare una serie di problemi ben noti ai lettori: i libri hanno una voce? E come ascoltarla, nel caso?

È lo stesso Rubery a rispondere affermativamente alla prima domanda, citando fra l’altro il concetto di “voce cerebrale” (quella che ciascuno di noi ascolta nella sua testa mentre scorre le righe di un testo) teorizzato tra gli altri da David Foster Wallace. Di fatto, sempre più spesso il termine “voce” viene impiegato in un’accezione prossima, ma non sovrapponibile a quella di “stile”. Non solo, infatti, un autore deve trovare la propria voce – è la lezione sostenuta a suo tempo dallo scrittore Al Alvarez – ma deve anche saperla variare di libro in libro. Per cui sì, certo: ogni libro ha la sua voce. Tutto sta a capire quale sia il mezzo più adatto per captarla.

L’idea di servirsi della tecnologia è antica quanto la tecnologia stessa. A un’evoluzione sonora del libro pensava già, negli ultimi decenni dell’Ottocento, Thomas Edison. Dopo aver utilizzato una poesiola per bambini come dimostrazione delle virtù del suo fonografo, l’inventore immaginava di fornire presto la versione registrata di un romanzo di Dickens: impresa ragguardevole, se si considera che ciascuno dei rulli di ottone in uso all’epoca non poteva ospitare più di tre minuti di registrazione. Questa, segnata da progetti irrealizzabili e proiezioni fantascientifiche, è la prima delle tre fasi in cui Rubery divide la sua “storia mai raccontata”. Il secondo momento coincide, a partire dagli anni Trenta del XX secolo, con la diffusione dei primi audiolibri propriamente intesi, dischi in vinile destinati ai ciechi. Sia pure con modalità differenti, l’iniziativa fu avviata quasi contemporaneamente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e in entrambi i Paesi dovette vincere le resistenze non solo degli autori (fra i più restii a concedere i diritti ci fu Margaret Mitchell, la popolare romanziera di Via col vento), ma anche dei sostenitori del Braille, che consideravano il ricorso al grammofono come un passo indietro nell’autonomia dei non vedenti.

Dopo di che, arriva Dylan Thomas. Arrivano, meglio, Barbara Holdridge e Marianne Mantell, due giovani fresche di laurea che nel 1952 fondano a New York la Caedmon Records, l’azienda grazie alla quale i “libri parlanti” entrano nella loro terza stagione. Dal non profit si passa all’attività commerciale (le registrazioni per non vedenti erano, negli Usa come in Inghilterra, gestite da enti pubblici senza fini di lucro), il catalogo è costruito su criteri di eccellenza letteraria e la notorietà è uno dei requisiti richiesti ai fini dicitori. Thomas, che verrà ricordato come “il Caruso della Caedmon”, riunisice tutte queste caratteristiche, come subito dimostra l’incisione del suo racconto Il Natale di un bambino del Galles. Con il passare del tempo le scelte degli editori diventano sempre più commerciali (la svolta viene dalla Books on Tape di Duvall Hecht, un pendolare californiano che ha l’intuizione dell’audiocassetta mentre si trova, come al solito, intrappolato nel traffico) e l’ingresso dei grandi gruppi editoriali nel mercato degli audiolibri porta ad arruolare lettori di grido, dal premio Nobel Toni Morrison alle star di Hollywood.

Il fenomeno è prevalentemente anglosassone, ammette Rubery, per quanto negli ultimi anni questo tipo di prodotto abbia conquistato spazio anche in Italia, specie per l’impulso dato dalle eccellenti registrazioni della romana Emons. Ma se la storia del libro parlante può essere ancora ripercorsa in chiave locale, di sicuro il futuro va pensato su scala globale, e non soltanto perché le tecnologie digitali semplificano e accelerano il processo.

Pensare all’audiolibro, in sostanza, significa ripensare il nostro rapporto con il libro e non è un caso che, tra i numerosi saggi che di recente si sono concentrati su piccole e grandi vicende bibliografiche, più di uno abbia adottato la soluzione narrativa del resoconto in prima persona. Si tratta ormai un genere a sé stante, che ha avuto il suo capostipite in Diecimila, il monologo composto nel 1999 dallo scrittore-bibliofilo Andrea Kerbaker e di recente riproposto in nuova edizione da Interlinea (pagine 80, euro 12,00). Lo stratagemma di dare voce a un libro – o addirittura a un biblioteca – rivela molto del momento di transizione che la lettura sta attraversando, fra riscoperta della materialità e presa d’atto del fatto che un libro è, appunto, più di un oggetto. Risponde alla prima istanza, quella della concretezza, la bella ricognizione compiuta dal linguista Matteo Mottolese in Scritti a mano (Garzanti, pagine 306, euro 20,00), con otto titoli celeberrimi della nostra letteratura, dal Decameron di Boccaccio al Nome della Rosa di Umberto Eco, riportati alla loro originaria condizione di manoscritti. Un movimento uguale e contrario è suggerito da un volume tanto prezioso quanto estroso, Canto di una biblioteca di Maciej Bielawski (Lemma Press, pagine 224, euro 22,00). A prendere la parola, questa volta, sono i libri letti e raccolti lungo tutta la vita da Raimon Panikkar, il teologo indo-catalano morto nel 2010 e figura eminente del dialogo interreligioso. Pittore oltre che scrittore, Bielawski ha preso le mosse dalla rielaborazione grafica degli appunti e delle dediche presenti sui volumi per tracciare una sorta di biografia per interposta biblioteca, molto suggestiva nonostante qualche giudizio forse troppo sbrigativo.

Un’autobiografia vera e propria, e di un libro che di fatto contiene in sé un’intera biblioteca, è quella alla quale si è dedicato il filologo Simone Beta in Io, un manoscritto (Carocci, pagine 176, euro14,00), lungo resoconto in prima persona nel quale il codice dell’Antologia Palatina ripercorre il lungo viaggio che dalla Costantinopoli del X secolo lo ha portato sugli scrittoi di Erasmo e di Tommaso Moro, e ancora in giro per l’Europa fino alla digitalizzazione nei siti dell’Università di Heidelberg e della Biblioteca nazionale di Francia. Molti degli epigrammi conservati nell’Antologia, in effetti, parlano già in prima persona, ma la presenza di una voce riconoscibile non è esclusiva della letteratura greca. Lo conferma, per esempio, l’aneddoto riportato e commentato da Nello Vian, il grande studioso scomparso nel 2000, in una delle note ora raccolte nel volume Il cardinale che sapeva leggere (Marietti 1820, pagine 336, euro 28,00). «Attende tu che scrivi», raccomandava Bernardino da Siena al volenteroso stenografo che annotava le sue prediche nel lontano 1427 e grazie al quale, anche in assenza di fonografo, quella voce poderosa non è andata perduta. Se ascoltare un audiolibro equivale a leggere, leggere un libro è sempre un modo per mettersi in ascolto.

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