mercoledì 7 settembre 2016
Viviani, il profeta Elia
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È tornato a correre domenica, al Tour of Britain, con altri protagonisti di Rio. Elia Viviani, la stella azzurra della pista che in Brasile ha conquistato uno degli ori più belli, non è solo. Con lui sir Bradley Wiggins e Owain Doull, il direttore di corsa Mick Bennett, anche lui olimpionico di rilievo (bronzo nel quartetto nel 1972 e 1976), oltre all’argento dell’Omnium Mark Cavendish, il cronoman Tom Dumoulin e il trio australiano dell’inseguimento a squadre composto da Jack Bobridge, Alex Edmondson e Michael Hepburn. «C’è voluto un po’ di tempo prima che io metabolizzassi questa vittoria – ci spiega da oltremanica –. Era un sogno che nutrivo fin da ragazzino, ma trovarsi lì con quella medaglia al collo è stato qualcosa d’incredibile. Per giorni ho vissuto come su una nuvoletta, sereno e felice come pochi. Me la sono tenuta al collo per tre giorni».

E ora? «Mi godo quello che ho raccolto ma non esito a pensare al futuro, anche immediato. Ora c’è il Tour of Britain, in chiave mondiale. Non sarà facile arrivarci al top, ma io ci provo. Come del resto proverò nei prossimi due anni a concentrarmi di più sulla strada: a Rio si è chiuso un capitolo della mia carriera su pista, ma come ho detto la mia disponibilità a lavorare per la Nazionale ci sarà sempre».

Anche perché adesso non sei da solo, alle tue spalle è cresciuta e sta crescendo una scuola, ad incominciare dal quartetto che a Rio si è fermato al sesto posto ma che ha tutto per diventare uno dei più forti quartetti al mondo. «Filippo Ganna, Francesco Lamon, Michele Scartezzini e Simone Consonni, che a Tokyo 2020 potranno ambire al podio, sono ragazzi eccezionali. Non dimentichiamoci che sono arrivati a 5' dal primato del mondo e a 70 centesimi dalla finale del 3° e 4° posto. Io sono felice che grazie a quello che ho fatto in questi anni anche i più restii alla pratica su pista si sono ricreduti. Io ci ho messo del mio, Marco Villa non mi ha mai lasciato solo, la Federazione con pazienza ha costruito poco per volta un progetto che ora ha una sua forma. Ora il messaggio è passato: la pista è propedeutica all’attività su strada. Non fa assolutamente male, anzi».

C’è mai stato un Viviani più forte di Rio? «A livello fisico sì, a livello psicologico forse non sono stato mai così sicuro. Gambe e testa sono state super. Dopo la caduta sono entrato in una sorta di trance agonistica: ero qui per vincere e non m’interessava nient’altro».

Hai detto che questa vittoria è frutto delle sconfitte… «E lo ripeto, è proprio così. Io sono ripartito dalle due delusioni di Londra. Quella dell’Olimpiade, con il sesto posto dopo che ero in testa prima della gara conclusiva. E poi quella del Mondiale di marzo, dall’oro in tasca al quarto posto nell’ultima volata per pochi centimetri. Ho pensato che dalle sconfitte c’è sempre da imparare».

Non pensi che la corsa a punti condizioni troppo la classifica generale dell’Omnium?

«Sì, è così. Uno come Mark (Cavedish, ndr), che ha fatto cinque prove non brillantissime ha rischiato di vinche cere. I punti raccolti nei 16 sprint che finiscono in classifica generale pesano tanto. Il giro guadagnato che vale da solo 20 punti anche. Io, infatti, questa volta per non rischiare ho rischiato: su 16 volate sono andato a punti in 11. Non potevo più sopportare l’ennesima beffa».

Quanto c’è del team Sky nel tuo successo olimpico? «Molto. Quando mi sono ritirato dal Giro d’Italia ero avvilito e deluso. Il primo a rincuorarmi è stato proprio il capo, Brailsford (il team manager; ndr) che mi ha detto: “Non farne un dramma. Tu stai inseguendo un grande obiettivo: pensa a Rio”».

Cosa ti porti nel cuore dell’esperienza olimpica?  «Tutto. È stata davvero una gran bella esperienza. Porterò sempre nel mio cuore il ricordo di quei giorni trascorsi assieme al gruppo strada nell’appartamento olimpico. Peccato solo siano partiti quasi subito. E peccato che la prova su strada sia andata a finire come è andata a finire: Vincenzo (Nibali, ndr) era stato super. Meritava la medaglia, anche se io sono sicuro che avrebbe vinto quella d’oro. C’è chi l’ha criticato perché ha osato troppo? Chi dice così non sa di quello che parla. Quando si corre si dà tutto, il resto sono solo parole».

L’uomo dell’Olimpiade? «In assoluto direi Usain Bolt. Poi Phelps. E subito dopo Wiggins: la vera star del villaggio olimpico che girava in bicicletta. Mi ha mandato anche un sms con scritto: “campione del mondo per un anno, campione olimpico per sempre”. Nel viaggio di ritorno ho anche conosciuto Paltrinieri (oro nei 1500, ndr). Sapeva tutto della mia corsa, e francamente la cosa mi ha sorpreso e inorgoglito parecchio. Adesso quando tornerà in vasca non mancherò di fare il tifo anche per lui».

È vero che Paltrinieri quando ha visto che avevi la medaglia al collo se l’è messa anche lui? «Verissimo. Eravamo sull’aereo per fare ritorno in Italia e io avevo la mia medaglia al collo. Quando mi ha visto ha detto: “Se ce l’hai tu la metto anch’io…” ».

Ora a tutta verso Doha. «Ho 27 anni, sono nel pieno della maturità psico-fisica. Per altre due stagioni sarò con il team Sky, la formazione più forte del mondo. E visto che loro mi hanno concesso tanto spazio per esprimermi su pista, adesso voglio provare a cercare il mio limite anche nelle prove su strada».

Sai che sarà una nazionale a due punte? «Ed è giusto che sia così, in una sfida di questo tipo non si può rischiare di avere una sola soluzione. Con Giacomo (Nizzolo, ndr) io vado d’accordissimo. So che possiamo fare qualcosa di bello. E so anche che in materia di treno, il nostro, sarà uno dei più forti al mondo, secondo forse solo a quello inglese».

Ma tra te e Nizzolo chi tirerà la volata a chi? «Bella domanda: falla a Cassani. Io e Giacomo dobbiamo solo arrivare a metà ottobre bella condizione migliore. Poi starà a lui fare la strategia».

Elia, dove hai messo la medaglia d’oro? «È lì, sul mio comodino. Dopo una gara da sogno, in quale altro posto avrei potuta metterla?».

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