mercoledì 17 gennaio 2024
«È il dramma dell’Occidente capitalista. Siamo come adolescenti travolti da pulsioni consumiste autodistruttive e inestinguibili. Bisogna educare a vivere la perdita»
Nathalie Sarthou-Lajus

Nathalie Sarthou-Lajus - -

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«La dipendenza da una sostanza è inizialmente una ricerca fallita di indipendenza. È una ricerca di piacere che non implica la presenza di un’altra persona. La dipendenza da una sostanza sembra più facile da controllare rispetto alla dipendenza da qualcun altro. Dà la sensazione di poterne gestire il consumo e di poter smettere quando si vuole, sfuggendo così agli alti e bassi delle relazioni» racconta a "Avvenire" Nathalie Sarthou-Lajus, filosofa francese e vicedirettrice della rivista di spiritualità e cultura “Études”, curata dai gesuiti d’Oltralpe, oltre che autrice di Vertigine della dipendenza (Vita e Pensiero, pagine 76, euro 15).

Professoressa, perché la dipendenza non è riconosciuta come un valore nelle società liberali?

«La dipendenza ha un’accezione negativa perché associata alla perdita della libertà e dell’individualità. Eppure la dipendenza appartiene alla condizione umana. Non è solo la prima condizione del neonato o l’ultima dell’anziano legato alle cure degli altri, ma una situazione che possiamo sperimentare in diversi momenti della nostra vita adulta. Esistono molti tipi di dipendenza: economica, fisiologica, psicologica, emotiva, sociale, ambientale… Anche nel caso delle addiction, le dipendenze vengono ignorate se presentate come scelte fatte da individui che pensano di controllare il consumo di sostanze ritenendo di poter smettere a piacimento».

Lei trova un parallelo tra debito e dipendenza…

«L’etimologia latina aiuta a coglierlo. Addiction è un sostantivo inglese ma deriva dal latino ad-dictus che significa “essere detto da”. Gli schiavi romani non avevano un nome proprio ma gli era assegnato dal padrone che dovevano servire. Chi è detto da un altro è privato della libertà di governare se stesso. Il termine, successivamente, ha indicato un individuo in situazione di servitù perché incapace di pagare un debito. La servitù per debiti era comune in molte società medievali e per molto tempo essere indebitati significava perdere la libertà. L’homo addictus dunque è uno schiavo, anche se pensa di avere il controllo sulla sostanza tossica. Il tossicodipendente perde ogni controllo sulla dipendenza e ne diventa schiavo, così come il debitore è alla mercé del creditore. Il debito e la addiction sono i tratti distintivi di una dipendenza che è il grande impensato delle nostre società liberali».

In che senso essere addicted e indebitati sono un segno distintivo della nostra epoca?

«Sono un fenomeno massiccio delle cosiddette società liberali, che hanno generato nuove forme di alienazione. Dalla crisi dei subprime del 2008, innescata da un sistema finanziario avventato, stiamo attraversando una crisi di insolvenza che ha schiacciato molti individui e mandato in bancarotta molti governi. Questa crisi del debito non è estranea all’aumento dell’uso di sostanze psicotrope e di comportamenti addicted. L’esempio dei cosiddetti white trash, che possiamo tradurre con “sottoproletariato bianco” americano, schiacciati dal debito eccessivo e devastati dal consumo di oppioidi prescritti legalmente che producono dipendenza, illustrano bene questa doppia deriva».

Per questo parla di capitalismo dell’addiction?

«Le dipendenze sono individuali ma derivano da un processo di dipendenza collettiva. Patrick Pharo definisce lo sviluppo del capitalismo come “un processo di dipendenza collettiva” legato ai modelli di consumo. L’uso di droghe esisteva prima dello sviluppo del capitalismo, ma quest’ultimo ha catturato i desideri degli individui spingendo all’estremo la logica dell’avidità addicted, facendoci credere che l’oggetto in grado di soddisfare il nostro desiderio esista, quando invece è proprio di un desiderio adulto riconoscere di essere inestinguibile sopportando l’esperienza della mancanza. La società che genera addiction è una società adolescente che non permette l’elaborazione adulta del desiderio e della mancanza».

Però lei parla anche di dipendenza felice…

«Distinguo tra dipendenze felici, che ci legano agli altri e ci permettono di prosperare, e dipendenze patologiche, che ci isolano e ci avvelenano. L’obiettivo non è sradicare la dipendenza ma renderla meno tossica, evitando di cadere in insopportabili schiavitù. Dobbiamo pensare alle condizioni per una dipendenza felice e creativa che ci dia la sensazione di una vita intensa, perché connessa agli altri e all’ambiente. La dipendenza è un luogo di costruzione e realizzazione di sé ma anche di autodistruzione e alienazione. Prendiamo per esempio la dipendenza da amore. La dipendenza più forte e temuta non è quella da sostanze ma quella da qualcun altro. La dipendenza dall’amore è fonte di preoccupazione e dolore perché se perdo la persona amata mi sembra di perdere una parte di me stesso e di morire. Ma la dipendenza dalla persona amata può anche essere fonte di intensa gioia, mi arricchisce, mi accresce, mi espande».

Come incoraggiare quindi una dipendenza non patologica?

«Per favorirla, l’individuo deve imparare a elaborare esperienze come la mancanza, la separazione e la perdita. Il miglior baluardo contro le devastazioni della dipendenza e dell’assuefazione non è l’indipendenza, il distacco o l’indifferenza. Come se ne fossimo capaci, poi! Ma desiderare e amare veramente qualcuno o qualcosa, quasi sempre legata a qualcuno. Desiderare e amare davvero qualcuno ci espone all’incontro con un altro che non compensa le nostre mancanze. In questo modo, impariamo a sopportare la mancanza, a trasformare l’esperienza della mancanza in una fucina di creatività e sensibilità. La mancanza non è solo un’esperienza negativa».

Conclude il suo saggio sottolineando come l’eccesso e la dismisura siano foriere di amore, fede e creazione…

«Discernere tra eccesso buono e cattivo è decisivo. Da un lato, l’eccesso rappresenta una minaccia per l’integrità fisica e sociale, per l’equilibrio del corpo e della comunità. Dall’altro, l’eccesso incarna lo spirito della festa, una dismisura vitale necessaria per la creazione, l’amore e la fede. Non possiamo vivere in modo permanente nella moderazione o secondo una razionalità calcolatrice. Una vita ridotta alla saggezza o alla sobrietà mancherebbe di sapore. È questo il senso delle cerimonie dell’eccesso, come i banchetti e il carnevale. C’è un eccesso nell’uomo che dobbiamo imparare a gestire per renderlo meno tossico pur conservandone l’intensità: esso libera l’uomo, gli permette di spendersi e dispiegare capacità che non sospetta di avere».

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