domenica 24 marzo 2019
Esce l’ultima tappa della trilogia metafisica di Vittorio Possenti: «Occorre riprendere il cammino ininterrotto del pensiero europeo che è venuto meno durante la modernità»
Il filosofo Vittorio Possenti (Siciliani)

Il filosofo Vittorio Possenti (Siciliani)

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È giunto il momento di un Ritorno all’essere. Così si intitola l’ultima tappa della trilogia metafisica di Vittorio Possenti, dopo Nichilismo e metafisica e Il realismo e la fine della filosofia moderna, nei prossimi giorni in libreria per Armando editore (pagine 440, euro 29,00). Possenti non necessita di presentazioni. Basta dire che è uno dei pensatori cattolici che diffida dei minimalismi e ha il coraggio di prendere di petto l’intera storia della filosofia e di legarla alla vita di tutti i giorni.

Perché Ritorno all’essere, professore?

«Significa riprendere il filo ininterrotto del pensiero europeo che dai primordi greci arriva fino al tardo medioevo ed è venuto meno durante la modernità. Già Martin Heidegger parlava di oblio dell’essere ma mentre per lui risaliva ai primi passi della metafisica io lo considero l’esito della filosofia cartesiana. Non si tratta però di guardare all’indietro in maniera nostalgica ma di riconquistare le intuizioni primarie dell’essere come aveva già fatto Tommaso d’Aquino. E da qui per ripartire attraverso i tempi postmoderni. Ora è il momento propizio perché hegelismo, marxismo, positivismo sono in panne. L’esaurimento di alcuni filoni del pensiero moderno offre la possibilità di acquisire uno sguardo nuovo».

Anche Bontadini e Severino si richiamano all’essere.

«Se si guarda attentamente al neoparmenidismo ci si accorge che il termine di partenza è l’essere e non l’ente. Quando io parlo di ritorno all’essere intendo richiamarmi alla realtà. Hegel, Gentile, Severino partono invece dall’assunto parmenideo che l’essere è. Ma questa è un’assunzione arbitraria. Sarebbe come dire, riprendendo Boezio, che correre è ciò per cui il corridore corre».

Invece?

«Invece la strada che parte dall’ente non muove dall’arbitrio ma dal concreto e tenta di oltrepassare il disastro speculativo Hegel che pone il divenire come combinazione di essere e nulla. Se consideriamo la dialettica hegeliana ci accorgiamo che è una posizione logica che prende le mosse dal nulla: ma così non arriva da nessuna parte perché il nulla è una finzione».

Cioè?

«Il nulla è solo un ente di ragione. La filosofia moderna è stata influenzata dalla celebre domanda di Leibniz: perché c’è l’essere piuttosto del niente? Questa domanda ha comportato uno sfasamento di prospettiva come se il nulla appartenesse alla realtà. Invece il pensiero dell’essere, da Aristotele e Tommaso, parte dall’ente e dalla molteplicità delle sue forme. Per il pensiero dell’essere non c’è il nulla perché l’ente è formato da essere ed essenza».

Dove sta l’errore?

«Si annida nel punto di partenza antirealistico dell’idealismo che ipotizzando l’identità di logica e metafisica finisce col riconoscere il primato della ragione sul concreto della vita».

Quali sono le smagliature della metafisica moderna?

«Uno dei suoi punti critici è la mancata soluzione del rapporto tra pensiero ed essere. Con Cartesio è nato il dualismo tra soggetto e res extensa. Tra di loro si è aperto un fossato. Da allora ci si chiede come valicarlo. Il problema era già stato colto da Fichte e Hegel, ma hanno provato a superarlo stabilendo l’identità di pensiero ed essere, facendo coincidere il processo del pensiero con lo sviluppo della realtà. Questo accade perché entrambi partono dal pensiero astratto per il quale l’essere diventa una semplice deduzione logica. Invece il pensiero dovrebbe raggiungere la verità conformandosi all’essere».

Perché oggi l’etica predomina sulla metafisica?

«Il primato dell’etica nasce da due motivi. Il primo proviene dall’avanzata delle tecnologie che pongono in continuazione agli uomini nuovi problemi. Il secondo invece nasce dal venir meno della metafisica. E il pensiero che ne è orfano non trova altro strumento cui ricorrere per rispondere ai problemi attuali che l’etica. Tutto questo è evidente in Habermas. Per uscire dall’impasse in cui cadono le soluzioni etiche bisogna adottare un altro punto di vista».

Vale a dire?

«L’accelerazione che stiamo vivendo è il risultato dell’unione di volontà di cambiamento, che non è nient’altro che un’altra forma della volontà di potenza, e di dinamiche economiche e finanziarie. E diventa oggi insopportabile. Per affrontare i problemi che genera o si ricorre alla tecnica stessa, che però risponde a suo modo, o all’etica. Ma qui ci si imbatte in uno scacco. Per esempio la ricerca biotecnologica sull’embrione, sul fine vita, sulle cellule staminali ci costringe ad uscire dalle strettoie dell’etica e a lavorare sul concetto di persona. Dopo lunghe discussioni si è pensato di aver trovato un punto d’accordo per cui occorre tutelare la dignità della persona. Sulle prime il consenso è stato ecumenico ma appena ci si sofferma si scopre che rimane aperto il problema di capire che cosa sia una persona. Si tratta semplicemente di una serie di funzioni oppure ne occorre cercare un fondamento ontologico?»

Nel suo libro lei dedica delle pagine intense al concetto di creazione. Perché pensa che occorra metterlo di nuovo al centro della riflessione?

«Se consideriamo la dottrina biblica della creazione vediamo come essa sia la prima rivelazione di Dio. Se l’idea di creazione si eclissa, questa prima rivelazione scompare e lo spazio speculativo e pratico viene occupato solo dall’uomo. Si apre così il campo all’antropocentrismo. Nella filosofia moderna il tema della creazione o è dato come presupposto o addirittura è del tutto assente. Dovrebbe invece trovarsi al centro della metafisica anche perché consentirebbe di capire come le teorie scientifiche abbiano poco a che vedere con la creazione. Stabilire che c’è un uovo primordiale da cui si sprigiona l’universo non basta a sciogliere il problema. Ammetterne l’esistenza non significa stabilire se questo uovo è stato creato o è lì da sempre».

Lei riconosce che il pensiero dell’essere è un pensiero meridiano. Che cosa intende con questo termine?

«L’espressione compare in Albert Camus nel 1958 e permette di cogliere il senso mediterraneo e solare del pensiero dell’essere. Il pensiero meridiano ha che fare con la considerazione concreta della realtà e comporta un sentimento di misura e di equilibrio con se stessi e con la natura. Contro la dismisura il pensiero meridiano riconosce i limiti. Si fida abbastanza delle capacità del logos ma è disposto a fermarsi davanti all’inesprimibile. Invece il razionalismo pretende di esaurire la totalità del reale in una formula sciogliendo il mistero dell’essere. Al contrario il pensiero meridiano tiene conto della inintellegibilità della totalità del reale».

Si tratta di rinunciare alla totalità per recuperare l’essere?

«Secondo quanto scrive Jacques Maritain in Antimoderno occorre lavorare sia contro il trascendentalismo che chiude il soggetto in se stesso sia contro l’idea di totalità e sistema. È interessante come su questo punto si trovi una convergenza tra la tradizione cattolica e il pensiero ebraico di Rosenzweig, Buber e Lévinas. In entrambe le tradizioni si trova una critica all’idea di totalità come totale relazionalità di tutte le cose. Ma questa posizione filosofica genera un sistema chiuso nel proprio immanentismo».

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