venerdì 3 agosto 2012
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​L'Olimpiade dei senza bandiera e dei senza terra entra nel vivo. Quella di chi a Londra non gareggia per la gloria, ma ricorda al mondo che ci sono 42 milioni di profughi e 35 guerre “dimenticate”. Quattro atleti hanno sfilato durante la cerimonia d’apertura sotto la bandiera olimpica perché non hanno patria. I precedenti riguardano gli atleti dell’ex Jugoslavia a Barcellona 1992 e quelli di Timor Est a Sydney nel 2000. Tre provengono dalle Antille Olandesi - Churandy Martina (atletica), il tiratore Philip Elhage e il nuotatore Rodion Davelaar - il cui Comitato olimpico si è sciolto l’anno scorso. Il quarto è il 28enne Guor Marial, ex bambino schiavo fuggito dal Sud Sudan negli Stati Uniti, che odiava la corsa e correrà la maratona con un paio di scarpe logore. La sua storia ha commosso il pianeta. Aveva otto anni quando nel suo Paese infuriava la guerra civile tra il nord musulmano e il sud cristiano e animista. Conflitto per il petrolio, l’acqua e la supremazia dell’élite araba di Khartoum. Di etnia Dinka e famiglia cattolica, fu rapito e portato in un campo di lavoro dai nordisti. Allora detestava correre, ma riuscì a salvarsi la vita fuggendo, una notte, insieme a un altro bambino. Lì ha imparato ad andare forte per non morire. Venne catturato di nuovo e costretto a lavorare come schiavo per la famiglia di un ufficiale sudanese per un anno. Gli bruciarono il villaggio, otto dei suoi fratelli morirono e, in tutto, 28 membri della sua famiglia persero la vita per violenze o stenti. Scappò, ma lo presero i Rashaida, trafficanti di schiavi della zona. Riuscì a sfuggire anche a loro e a riparare in Egitto prima di finire negli Usa, dove ha ottenuto il permesso come rifugiato. A 16 anni, alle superiori, Marial ha iniziato a correre alle campestri per aggiudicarsi borse di studio. In tutta la vita ha partecipato a due gare ufficiali. Alla prima, a sorpresa, senza sponsor, personal trainer e tute firmate, si è qualificato alle Olimpiadi correndo in 2 ore, 14 minuti e 32 secondi. Alla seconda ha fatto anche meglio. Vive in una camera ammobiliata a Flagstaff, Arizona, e si mantiene lavorando di notte in un centro per malati mentali dedicando il giorno agli allenamenti. Ma quest’uomo, che incarna lo spirito dello sport a cinque cerchi, non aveva una bandiera sotto la quale gareggiare a Londra perché non è ancora cittadino americano e la sua terra d’origine, il Sud Sudan, fresco d’indipendenza, ha ben altri problemi e non ha un Comitato olimpico. Di correre per il Sudan non ne ha voluto sapere, per lui era come disonorare i due milioni di vittime della guerra. A luglio la senatrice Jeanne Shahee ha scritto al Cio chiedendo di farlo correre sotto la bandiera olimpica. Permesso accordato. «È incredibile – ha dichiarato appena giunto a Londra –, è uno di quei miracoli attraverso i quali Dio mi sta indicando il mio destino usandomi per aiutare altra gente. Anche se non porterò una bandiera, la mia patria ci sarà lo stesso, questo è un sogno che si avvera». Stamane nella quarta eliminatoria dei 50 stile libero si avvera un altro sogno, quello di una piccola nuotatrice di Betlemme che ha una bandiera, ma non uno Stato riconosciuto. Fino a pochi mesi fa Sabine Hazboun, 18 anni, cristiana, non aveva neppure un impianto per allenarsi. Ha imparato a nuotare nella piccola vasca dell’Azione cattolica, vicino a piazza della Mangiatoia, oasi voluta per i Betlemiti dai Francescani della Custodia. Il primo allenatore è stato il padre, che non sa stare a galla. Allenarsi nei Territori è complicato, mancano piscine regolamentari e per la ragazza era quasi impossibile accedere ai centri sportivi di Gerusalemme. Ma Sabine ha vinto lo stesso gare internazionali, così, un anno fa l’Olympic Solidarity Commission le ha offerto una borsa di studio per trasferirsi a Barcellona. Cinquanta metri sono pochi, ma per Sabine e Betlemme è solo l’inizio di una lunga storia, che stavolta parla di pace.
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