lunedì 10 agosto 2015
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«Ho sempre pensato che la difficoltà ma anche la forza della fotografia sia nella capacità di bilanciare il proprio sentire con la realtà. E solo riuscendo a calibrare le proprie emozioni profonde in un concetto reale senza che una prevalga sull’altra si arriva a poter raccontare una storia. Solo nel momento in cui riesco a toccare quello che sento, scatto». Valerio Bispuri è un fotoreporter romano che ai servizi “mordi e fuggi”, preferisce l’indagine, la riflessione, la comprensione. «La fotografia deve essere “profonda”, questo è il termine che penso definisca al meglio il mio modo di intendere questo mestiere». Una profondità che emerge da tutti i suoi lavori: da quello sui rom a Roma al suo viaggio durato dieci anni in 74 carceri del Sudamerica, pubblicato in Encerrados (Contrasto, pagine 144, euro 35,00). «È il racconto di un microcosmo che serve a capire il fenomeno in grande: è la storia di come si vive la quotidianità priva di libertà. Provare a raccontare l’anima di un detenuto, al di là dell’immaginazione o delle strumentalizzazioni della politica. L’ho fatto in un continente che ho scelto come campo d’indagine, quando a 28 anni, ho deciso di mettermi in gioco ed eleggere la fotografia a professione. Guardando alcuni detenuti che bevevano il mate in una cella del carcere di Buenos Aires, come fossero al bar, ho avuto l’idea di poter iniziare un racconto, durato poi anni». Un lavoro estremo, che ha portato Bispuri in situazioni anche di pericolo, come nel padiglione 5 del carcere di San Felipe di Mendoza (che ha chiuso dopo la pubblicazione delle sue immagini). «La realtà o la si racconta tutta, o niente. L’immagine deve parlare senza parole. Per questo bisogna arrivare al cuore della narrazione, all’essenza, al profondo». La fotografia diventa un’«arma» per «lottare contro le ingiustizie». «Da ragazzino pensavo di poterlo fare con le parole e mi sono avvicinato al giornalismo. Poi ho pensato che le immagini fossero più forti. Più potenti». Ed ecco l’approdo al fotogiornalismo. «La fotografia artistica, invece, non mi interessa. Certo, la bellezza può aiutare. Non guasta, ma l’aspetto estetico, intimistico non è nelle mie corde. La fotografia è indagine. È capire».Una strada impegnativa quella di Bispuri. Che impone «coraggio». «Coraggio di cambiare, di mettersi in discussione», spiega. Guardando all’Italia, con gli occhi di chi gira il mondo e prova a immaginare il futuro che aspetta suo figlio di sei anni, emerge l’amarezza: «Non vedo questo coraggio qui. Siamo attorcigliati attorno ai problemi, incapaci di fare scelte forti, di affrontare le difficoltà e costruire un progetto per la città, per il paese». C’è un tema su cui vorrebbe indagare Bispuri per raccontare l’Italia, quando ne avrà la possibilità, quando la sua bussola lo porterà qui per qualche mese: gli immigrati. «Mi fa tristezza leggere quello che leggo su molti giornali in merito all’immigrazione. Il cuore si fa piccolo. C’è in una parte d’Italia una arretratezza culturale molto forte. Per fortuna non tutto è così. Ma vorrei fare un lavoro di denuncia. Come il lavoro sui rom a Roma che ho fatto tempo fa, che indaga sul concetto di libertà, applicabile alle libertà di tutto il mondo. Viaggiando vedo tanti popoli che vogliono uscire, andarsene da dove vivono perché vogliono una vita migliore. Cosa c’è di diverso dalla nostra ansia di migliorarci e di crescere? Eppure vengono presi a calci, vengono guardati con sospetto. È una cosa amara. Su cui penso si possa dire molto con la fotografia». Bispuri vuole creare una scuola, un gruppo di fotografia fondato sulla «profondità». È quello che cerca di trasmettere ai ragazzi che seguono i suoi workshop in giro per l’Italia e per il mondo. I suoi miti sono lo statunitense James Nachtwey e il ceco Josef Koudelka. «Sono loro l’emblema di quello che ho in testa». Il libro a cui sta lavorando (uscirà nel 2016) sarà sul paco. Dopo le carceri, la droga. La droga dei poveri, ottenuta dallo scarto della lavorazione della coca, che a partire dall’inizio degli anni Novanta dai quartieri periferici di Buenos Aires si è diffusa nelle favelas e nelle periferie di tutto il Sudamerica, con effetti catastrofici sui giovani. «Sono stato in quelle periferie, le stesse che conosce e frequentava, quando viveva qui, papa Francesco. Ho incontrato gente che mi ha raccontato del suo impegno, del suo interesse per le condizioni dei bambini, quanto fosse vicino al mondo della povertà. Sogno una frase del Papa per il mio libro», aggiunge con emozione, «perché lui sa di quello che provo a raccontare». «Io non sono credente, ma guardo alla figura di papa Bergoglio con grande speranza. Come penso che gli ideali e gli insegnamenti di san Francesco siano universali, una strada per tutti». Bispuri porta al collo un tau. «Me lo ha regalato mia nonna quando avevo 13 anni, dopo un viaggio ad Assisi. Non l’ho mai più tolto». Un viaggio lungo e profondo, quello di Bispuri che arriva al cuore dell’uomo. Della sua dignità troppo spesso violata. Nel commentare Encerrados, non a caso lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, notava: «È una metafora della vita di milioni di persone, colpevoli di povertà e abbandono. Le fotografie penetrano tanto profondamente da sembrare radiografie». Così emerge la «realtà più nascosta». E la profondità di Bispuri.
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