sabato 13 agosto 2016
Il vicino di casa diventa «social»
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Stato sociale, o si cambia o si finisce. La demografia incombe con i suoi cambiamenti radicali, il costo di un certo modello non è più sostenibile, e al contempo non vengono percorsi scenari e prospettive nuove, che invece sono incoraggianti. Johnny Dotti, imprenditore nel sociale (in passato è stato presidente Cgm, la più grande impresa a rete di cooperative sociali in Italia, oltre ad essere stato il fondatore di Welfare Italia), ne è convinto. E nel libro Buono è giusto. Il welfare che costruiremo insieme (Luca Sossella Editore, pagine 164, euro 15,00), scritto insieme al giornalista Maurizio Regosa, ne fornisce cifre ed esempi concreti. Dotti chiede un cambio di passo, ovvero «immaginare un altro ordine delle cose, pensare a nuove forme dell’abitare che si traducono in nuove forme della socialità». Nel suo libro lei parla spesso di «novità», di «nuovi» scenari nel guardare al welfare.«Il cambiamento principale riguarda la capacità di immaginare la proprietà privata come un affidamento di un bene, e non come il possesso in termini assoluti. Del resto questo rappresenta un principio che è nel Dna del cristianesimo. Quindi, il dato di novità consisterebbe in questo sguardo nuovo sulla proprietà privata che non deve risultare un dato assoluto. E questo come si riverbera nell’organizzazione sociale?Penso al discorso degli immobili: premesso che la proprietà privata resta sacra, è indubbio che un certo modo di considerare l’edilizia in chiave di possesso assoluto ha tarpato le ali ad un discorso ideale, che vede la famiglia come parte di una società più vasta e come fonte di altruismo. Non è un caso che la grande crisi finanziaria sia partita dal settore immobiliare, perché la casa è stata ridotta semplicemente ad appartamento, o comunque a bene assoluto e privatistico. La casa va invece immaginata, a mio modo di vedere, non come un luogo esclusivo e assoluto, bensì che resta aperto. Scherzando, ma non troppo, dico che bisognerebbe fare un marcia contro gli appartamenti, che privatizzano un bene aperto alla dimensione sociale come è l’abitazione. Qualcosa però si sta muovendo…».Ad esempio?«Penso al fenomeno del welfare street, alle esperienze di vicinato, di piazza, di competenze messe a servizio e in circolo vicino a casa. Oggi con i social network si mettono in circolazione quelle possibilità e disponibilità che un tempo si veniva a conoscere con il passaparola. Ad esempio, in paese una volta c’era sempre una donna capace di fare le punture, oggi questa competenza viene fatta conoscere con facebook: io mi prendo carico di tua figlia quando tu non puoi, tu fai lo stesso con mio nonno quando devo assentarmi. Tutto questo poi diventa quanto mai importante perché siamo davanti a un cambiamento demografico epocale, per cui l’equilibrio tra gli over 65 anni e gli under 25 è decisamente sbilanciato a favore dei primi. O ci si immagina nuove forme dell’abitare, o la questione verrà affrontata solo in termini sanitari. E naturalmente solo per i pochi fortunati che se lo potranno permettere. Ecco allora esperienze o idee che vanno diffondendosi: la badante di condominio, il giardino comune, la lavanderia in comproprietà, … Tutte le società avanzate hanno economie che si fondano sull’edilizia. Per farla ripartire anche da noi serve un cambiamento di mentalità che non punti più sull’elemento individualistico/privatistico (ovvero, per sintetizzare, sull’appartamento) ma immagini di aggregare le domande che vengono dalla società, dando delle risposte innovative».Qualcuno potrebbe obiettare che il suo approccio resta quello meramente economico, ovvero di business…«È follia pensare di far a meno dell’economia. Ma penso che le leve delle scienze economiche oggi in essere, ovvero l’efficienza e l’efficacia, non siano le sole da tenere in considerazione. Vi sono anche i significati e i legami sociali che diventano variabili importanti. Questa è semplicemente la tradizione cattolica, per come la conosco. L’efficienza non è un valore in sé, lo è quando sta dentro un quadro di riferimento più grande, che è il legame sociale. E la cosa curiosa è che il capitalismo questa cosa l’ha capita meglio di noi…».Addirittura?«Certo. Altrimenti perché tutta questa insistenza sulla sharing economy, che non è altro la generazione di legami sociali, ovvero la capacità di proiettare rapporti tra diversi? Il capitalismo massimizza questa socialità per sé, per i propri tornaconti. Vedi il caso dei social network».Tornando al nuovo welfare, esperienze ne esistono?«In Italia sono attive una trentina di esperienze di quel welfare street di cui accennavo prima. A Milano è da segnalare l’esperienza pluriennale della Barona, un housing sociale per dare case a famiglie non abbienti. Ma è qualcosa di più che i semplici abitazioni a prezzo modico: in quello spazio ci sono comunità per nuclei famigliari mamme/bambini, è attivo un ristorante, esiste un centro lavoro, tutto pensato con uno scambio mutualistico. Le famiglie pagano 150 euro di affitto ma mantengono e curano il parco della cooperativa; gli studenti hanno un affitto basso ma devolvono almeno quattro ore di volontariato all’interno della struttura. E tutto questo crea legame sociale».E il pubblico? Resta fuori da tale discorso o entra in gioco, e come?«Lo Stato deve essere promotore e facilitatore, non il capobastone. Per la semplice ragione che lo Stato non è capace di attivare legami e creare senso, può solo favorire le condizioni perché questo accada».
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