venerdì 22 aprile 2022
È la regina delle strade di Roma. Il fotografo Giulio Ileardi l’ha percorsa fino a Brindisi, parlando con la gente. La mostra "Still Appia" documenta questo lavoro
L’area archeologica di Minturnae (Latina)

L’area archeologica di Minturnae (Latina) - Giulio Ileardi

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Altro che Regina viarum, si dovrebbe chiamare Via Humanitatis la via Appia fotografata da Giulio Ileardi da poco esposta, con cinquanta straordinari scatti, presso il Complesso di Capo di Bove a Roma nella mostra intitolata Still Appia. Fotografie di Giulio Ileardi e scenari del cambiamento (fino al 9 ottobre). Lo testimoniano le decine di post che su Facebook hanno accompagnato la straordinaria impresa di uno dei maggiori fotografi italiani che, in un mese, ha percorso a piedi la Via Appia da Trastevere a Brindisi. Come in una sorta di diario della modernità, Giulio Ileardi ogni giorno annunciava la sua tappa di percorso e poi ne faceva il resoconto, registrando incontri con gli amici di 'Italia Nostra', oppure con gli storici dell’antichità del luogo, o con gli appassionati. Lo seguivano sul sito web e poi si facevano trovare lungo la strada ad accoglierlo per fargli festa e scoprire novità sorprendenti come «...un tratto di basolato di una cinquantina di metri, emerso quest’anno da lavori stradali eseguiti per fare una rotatoria...» nei dintorni di Ariccia, già a partire dal secondo giorno. Insomma, quella di Giulio Ileardi è una via Appia rivisitata con gli occhi dell’amore e della passione, gli stessi che mossero, ormai varie decine di anni fa, Antonio Cederna che concepì e promosse il Parco Archeologico dell’Appia Antica, grazie al quale, buona parte di questo patrimonio assai fragile, si è conservato fino a noi. Sarà appena il caso di ricordare che l’Appia Antica fu progettata nel 312 a.C. dal censore Appio Claudio Cieco, per costituire un asse viario che collegasse velocemente Roma ai Colli Albani, utile prima di tutto per il movimento delle truppe verso sud durante la Seconda Guerra Sannitica (326-304 a.C.). Nel tempo, la strada seguì l’espansione del dominio romano e si estese prima a Capua, poi a Maleventum - trasformato, dopo la vittoria nel 268 a.C. su Pirro, in Beneventum, secondo la tradizione - e, successivamente, a Taranto e infine, per volere di Traiano, a Brindisi.

Il basolato al VI miglio, a Roma

Il basolato al VI miglio, a Roma - Giulio Ileardi

Al di là del chiaro impiego militare, una volta completata, la strada divenne uno strumento di pace e di comunicazione per collegare Roma con le sponde dell’Adriatico da dove non era poi difficile partire per quello che era ritenuto il faro culturale dell’Impero, ossia quella Grecia, protettorato romano dal 146 a.C. e tredici anni più tardi privincia della Roma imperiale. Una funzione, quella dell’Appia, che non si esaurì con la fine della mastodintica struttura statale romana, ma ebbe vita lunga nelle epoche successive, assicurando facilità di movimento prima ai Crociati, poi a Federico II di Svevia e pure ai pellegrini che andavano a pregare a Gerusalemme. Questa efficienza, mantenuta per oltre quindici secoli, era dovuta alla tecnica di costruzione della Regina viarum. Larga quattordici piedi romani, ossia poco meno di quattro metri e mezzo, la strada prevedeva uno scavo che seguiva l’andamento dei bordi, indispensabili per dare il verso alla direzione. All’interno dello scavo si collocavano tre strati. Il primo, detto statumen, era costituito da pietre grezze e grandi collocate nella sede stradale. Il secondo consisteva nella messa in opera della malta e del pietrisco che assicurava il drenaggio sia dell’acqua meteorica (la pioggia), sia di quella di eventuali alluvioni. Era detto glareatum oppure rudus e veniva battuto con cura. Al di sopra si stendeva l’ultimo strato formato da una miscela di malta, sabbia e puzzolana (detto nucleus) nel quale si affogavano i basoli di pietra lavica che costituivano il pavimentum. Si capisce, allora, perché l’Appia sia sopravvissuta a ogni prova del tempo atmosferico e di quello della Storia. Oggi, come un fiume carsico, s’inabissa nella modernità per riemergere inaspettata portando con sé la memoria del passato, ma anche una speranza per il futuro. Infatti, se l’Appia sopravviverà alla sciatteria degli uomini, avremo un mondo migliore.

Quel che resta di un capitello tra la segnaletica stradale nel centro di Capua

Quel che resta di un capitello tra la segnaletica stradale nel centro di Capua - Giulio Ileardi

È un po’ pure questo il tacito messaggio contentuto nei sorprendenti scatti di Giulio Ileardi, pubblicati nell’elegante catalogo edito da Gangemi, arricchito dai contributi di Luigi Oliva a Simone Quilici, curatori dell’esposizione. Qui ci accoglie un video che raccoglie i momenti salienti di quest’avventura e, come ovvio, le fotografie che documentano, per esempio, l’opus reticulatum del Capitolium di Terracina, ma pure i resti di un sepolcro di età romana che convivono con l’insegna di un 'Pizza- Point' a Formia, oppure gli archi dell’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere che hanno per sfondo anonimi edifici di edilizia popolare. 'Scenari del cambiamento', come dice il sottotitolo. Visitare la mostra, però, è di per sé un’esperienza unica perché per arrivarci bisogna camminare su quello stesso 'basolato' che era stato calcato da Orazio e da Augusto, da Mecenate e da Costantino.

L'Appia alla periferia di Mondragone

L'Appia alla periferia di Mondragone - Giulio Ileardi

I nostri piedi, incredibile a dirsi, vivono quelle medesime esperienze e registrano le stesse sensazioni sebbene siano diverse le calzature. Solo che tutto questo non è teoria, ma sta nella memoria dei nostri piedi. Per paradosso, è come se prima di visitare la Cappella Sistina, fossimo invitati a sperimentare l’affresco. In nessun altro luogo la bella mostra potrebbe regalare simili sensazioni, anche se, nel progetto espositivo sono previste tappe itineranti nelle principali regioni percorse dalla Regina viarum.

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